Abitavo a Montevarchi, in quel novembre del sessantasei. Facevo la prima media, o forse la seconda, non è così importante.
Abitavo in un palazzo moderno di sei piani. Al pianterreno c’era una lunga galleria con i negozi ai lati. Per quelli che amano la precisione dirò che era in via Ammiraglio Burzagli, il che è curioso essendo Montevarchi ben lontana da qualsiasi mare. Ma forse era una premonizione sul fatto che con l’acqua, mozzi o ammiragli che fossimo, avremmo avuto parecchio a che fare, in quell’inizio di novembre del sessantasei.
Si seguiva la televisione e si seguivano le voci nella strada. L’Arno dopo giorni e giorni di pioggia si faceva minaccioso e noi eravamo vicini, vicinissimi alla diga di Levane, lì dove il bacino si riempiva sempre di più, ora dopo ora.
Qualcuno, nella strada, affermava di esserci stato e giurava che non avrebbe retto ancora a lungo. L’ansia montava e la gente discuteva di quanto sarebbe stata alta l’acqua arrivando da noi in paese.
A Firenze mi pare ci si pensasse poco, anche se il telegiornale faceva vedere il fiume passare sotto Ponte Vecchio con la furia di un torrente di montagna diventato improvvisamente sporco e gigantesco. Detto alla Guccini : con la stessa forza della dinamite.
Poi cominciarono le urla. “Hanno aperto la diga! Hanno aperto la diga!”. Eravamo preparati e non eravamo preparati. Le paratie di legno ed i sacchi di terra c’erano, davanti al nostro palazzo. Gli stivali di gomma li avevamo tutti e a me, incosciente, sembrava anche un po’ ganza tutta quella frenesia. Stolto, come si può essere stolti a undici anni, non capivo bene cosa poteva succedere, quali le conseguenze.
Alla fine arrivò, l’onda. Non finiva mai. Era marrone, fangosa, paurosa. Si alzava e ci raccontava di quanto fessi fossimo a pensare di poterla domare. L’orgoglio per gli stivali di gomma nuovi mi sparì in un attimo.
Essere in anticipo sulla grande Firenze (mi sembrava tanto grande, allora, in quel novembre del sessantasei) non dava alcuna soddisfazione. Come anche avremmo volentieri fatto a meno di essere menzionati nei notiziari di quelle ore. Travolti poi dal dramma fiorentino che oscurò i piccoli drammi nostri della provincia.
Mi ricordo, dopo, di tanta melma. Dovunque. Mi ricordo dello spalare fuori quella merda cattiva dai negozi e dalle cantine degli amici. Ma in fondo tutti erano amici, in quell’inizio di novembre del sessantasei. E questa è l’unica cosa bella che mi ricordo.
Tutto il resto è fango e Firenze che affoga.
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