Celestina,
barite e marcassite mi attendevano attorno a una vecchia miniera senese:
ferveva allora mia profonda passione, durata almeno due mesi, per il
collezionismo mineralogico. Alla meta avrebbe dovuto portarmi, assieme a due
amici, una Bianchina familiare che all’alba del 4 novembre parte da piazza S.
Simone, traversa un Arno inquietante sul ponte San Niccolò e si ferma subito
dopo, per colazione, in un bar di piazza Ferrucci. Al nostro giovanile timor di
esondazione l’attempato gestore dell’esercizio oppone la forza serena dell’esperienza:
“Si vede che non l’avete visto nel ’49. Tutti a pigolare, un monte di discorsi,
e poi non successe nulla”.
Fidanti,
ripartiamo imboccando il viale dei Colli ma poco oltre un filtro, più che
blocco, di carabinieri: “Dove andate ?”. “Sotto Siena”. “Meglio di no”. Brutte notizie, pare, per
l’Elsa e per l’Ombrone.
Ubbidiamo,
da catto-(non ancora)comunisti, e per tornare al sicuro a casa ripassiamo il
fiume che nel frattempo sta smentendo il barista: l’acqua comincia a invadere
le strade e il panico a diffondersi. Il
Quartiere, mio e non solo di Pratolini, ormai non è più raggiungibile.
All’assenza di protezione civile supplisce
quella parentale: cugini quasi di campagna che abitano sopra Fiesole e ci accolgono meravigliati
perché ancora ignari dell’evento. A informare il cólto e l’inclita, del resto,
tardarono non poco, notoriamente, anche i media del tempo. Più vivace il
passaparola rapidamente generatore (anche) di leggende strapaesane tra cui quella
del crollo del Ponte Vecchio: alla smentita ufficiale, finalmente appresa via
etere, segue corale sollievo, perfino punteggiato da qualche luccicone e un po’
di tosse.
Spadaro viene però a breve sorpassato
da Bella ciao: per me lato A di un 45
giri di Ivo Livi ‘Montand’ (sul lato B, senza malizia: Amor dammi quel fazzolettino) mentre per i cugini è titolo di uno
spettacolo andato in scena due anni prima a Spoleto, nel Festival dei Due Mondi,
e da loro posseduto su LP che nel pomeriggio viene fatto girare sul piatto del
grammofono.
La puntina che ara quel vinile mi
spiazza come mai prima era accaduto e come raramente avrei provato in seguito.
Per oppormi al volo della colomba
bianca della Pizzi mi ero fino ad allora esclusivamente affidato al soffitto
viola di Paoli o alla via Broletto di Endrigo. Mentre il gusto di sentirmi
dalla parte degli oppressi mi derivava dal solo pensare/guardare la loro
condizione miserabile. Li vedevo, appunto, ma non li avevo mai sentiti. “Dai quadri,
i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce”, Franco
Fortini dixit.
Ora, in format falsamente fedele, ne ascoltavo invece parole e musiche che
mi donavano un’altra possibilità di distinguermi prendendo distanza da Sanremo.
Plaudendo l’orgoglio della protesta
finalmente a testa alta, certo: con “la libertà [che] non viene, perché non c’è
l’unione”. Ma ancor più, oggi almeno lo
posso dire, fu per me punctum la
profondità atemporale, così la sentivo, di tante dolenze, dolci e rassegnate. “Ce
l’hanno fatto tanto stretto il nodo/che non si scioglierà né te né io”. “Addije, addije ammori,/casch’e se coje/la live e casch’a
l’albere le foje”. Sensazioni che non sapevo come e dove collocare, tanto
da dovermi appigliare al vecchio Giusti impostomi a suo lontano tempo dalla
maestra: “sentìa nel petto la dolcezza amara/de'
canti uditi da fanciullo; il core/che da voce domestica gl'impara,/ ce li
ripete i giorni del dolore”.
Evvabbè.
Intanto, mentre sopra Fiesole ascoltavo la
Bueno, molte altre canzoni da lei raccolte in Toscana su nastro magnetico annegavano
a casa sua, limitrofa a piazza Santa Croce e sommersa dall’Arno d’argento. Casa
mia è poco lontana, in via S. Pier Maggiore 2 (per saperne di più),
e ci torno letteralmente day after,
per cronologia e atmosfera: un 23, inteso come autobus, è adagiato in piazza
San Firenze sulle scale del Tribunale barocco assieme a grandi tronchi d’albero,
gabbie di conigli e damigiane spezzate. Come in ogni evento drammatico, gli
sguardi si macchiano di voyeurismo estetizzante
e fioriscono le false notizie, quasi sempre intrise di rancore contro ‘lorsignori’.
Nel sottopassaggio della stazione “non si sa mica quanti morti ci sia
stato: è perché non lo voglian dire”.
Senza
luce, con acqua e pane, distribuiti da camion militari: vivo per qualche giorno
quanto avevo sentito narrare dai miei genitori che stanno appunto rivivendo il
loro tempo di guerra. Non mancano forme di accaparramento indebito, mercato
nero incluso. Al Canto alle Rondini un capopopolo, tra Masaniello e
Stenterello, lancia inascoltato l’invito al saccheggio: “Tutti alla Standa !”,
supermarket alimentare che ha da poco occupato lo spazio dello storico Cinema
Garibaldi.
Le
retorica mi assume a tempo determinato: al terzo giorno risuscito come angelo
del fango, facilmente riconoscibile per gli attributi canonici costituti da
tuta blu operaia e stivali di gomma. Prima presso il signor Alberto, nostro pizzicagnolo
che, come Calandrino tra i sassi del Mugnone sparsi per casa, si muoveva
sconfortato tra le sue scatolette dal contenuto ormai desemantizzato per completo
dissolvimento delle etichette.
Poi
nella chiesa di San Remigio, con vari altri cherubini spalando e canticchiando.
Orgoglioso di averla appresa da poco, e abbastanza convinto di épater les bourgeois, accenno a Gorizia tu sei maledetta: purtroppo subito
sconfessato da un citoyen che mi si
aggrega nel cantarla rivelandosi fratello di Giovanna Marini, una delle
protagoniste dello spettacolo di Bella
ciao. Decenni dopo saprò che già allora era un gesuita, divenuto in seguito
parroco ai Parioli e conclusivamente prete di strada a Scampia.
Infine,
e inevitabilmente, entro in Biblioteca Nazionale senza riempire la scheda
d’ingresso. L’Arno ha liberalizzato fino all’anarchia le modalità di accesso ai
volumi: non più centellinati e attesi con trepidazione ma passati di mano in
mano in clima di solidale cameratismo giovanile e speranza di salvezza. Molti
non la troveranno e, per decenni, di loro resterà memoria nella sentenza
manoscritta dagli impiegati sulla scheda di richiesta: “alluvionato”.
‘Angelo’,
ovviamente, sono diventato dopo. Allora non sapevo di esserlo: neppure
lessicalmente. Collaboravo con scarsa consapevolezza alla costruzione di una memoria
destinata a divenir importante: perché non è da tutti vivere sapendo dar senso
e peso adeguato a quel che si fa. I più, quorum
ego, devono rassegnarsi a capirlo ‘dopo’, favoriti da reducismi e
celebrazioni. Mi è successo così anche per ‘il ‘68’, figuriamoci.
Non
so cosa capisse, concludendo, il trippaio e pittore naïf
che il 5 novembre in via San Pier Maggiore, mentre ripuliva il suo
carretto con foto di Hamrin ritagliata da “La Nazione”, commentò la situazione
riciclando a voce spiegata, sulla linea melodica dell’ottava rima, un vecchio denso endecasillabo: “Firenze l’è
una grande meravi-iglia”.
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