18/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Omero Sala

Approfittando delle festività di novembre – i giorni martedì 1, venerdì 4 e domenica 6 consentivano un ponte ghiotto – ero partito da Brescia per passare qualche giorno a Firenze.
Con me c’era un amico, Luciano Anelli, ora insigne saggista esperto di pittura dal tardo Cinquecento all’Ottocento, già Direttore dell’Istituto d’Arte di Brescia, già docente di Teoria del Restauro presso la Cattolica.
Il nostro risicato budget da studenti non ci consentiva sciali: eravamo arrivati in autostop, dormivamo con poche lire nell’Ostello della gioventù di Villa Camerata, mangiavamo panini (imbottendoceli da noi con l’economica ma saporitissima mortadella), bevevamo l’acqua delle fontane.
Dopo il tour esplorativo, quello d’obbligo per i provinciali che arrivano per la prima volta Firenze (Duomo-Campanile-Battistero, Signoria-Loggia dei Lanzi- Ponte Vecchio, San Lorenzo, …), visitammo gli Uffizi, il Pitti, l’Accademia, forse anche il Bargello. Non ricordo bene.
Ricordo invece che pioveva e che negli spostamenti si andava sotto scrosci incessanti. L’ombrello, oltre che costare quanto due pasti, non confaceva al nostro status di autostoppisti (nessuno si ferma a raccogliere un vagabondo con l’ombrello fradicio): per questo camminavamo rasenti ai muri, cercando ripari ovunque, scavalcando rigagnoli e pozze, attraversando strade e piazze a salti, con le scarpe zuppe e i capelli incollati.
Diluviava tutti i giorni, senza tregua, dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina. Uno scassamento unico.
La sera del 3, nel cupo camerone dell’ostello, avviliti come il cielo e fradici come spugne, decidemmo di interrompere la vacanza e ritornare a Brescia.
La mattina del 4, di buon’ora, ci caricammo in spalla i nostri zaini e – un po’ in autobus e un po’ a piedi, fra rigagnoli ribollenti, gonfi e terrosi – raggiungemmo il casello autostradale della Certosa di Galluzzo. Ci appostammo a venti metri dallo stabiotto del casellante (che non ci voleva sotto le pensiline anche perché – lo diceva esplicitamente un cartello – in autostrada era vietato fare l’autostop) e sfoderammo i pollici sotto l’acqua che continuava a cadere, con le sacche in testa per ripararci alla bell’e meglio, attenti ad evitare gli spruzzi delle macchine e le secchiate dei camion.
In mezzo a quel cataclisma di piombo nessuno si fermava: credo di aver battuto quel giorno il mio record personale di attesa (tre, quattro ore?).
L’acqua che batteva incessante consentiva agli automobilisti di fingere di ignorare la nostra espressione implorante e disperata.
Quando si avvicinò, rallentando in prossimità della barriera, un camion targato Brescia, lo assaltammo sbracciandoci e urlando in dialetto per farci riconoscere di quella nobil terra natìi --- e costringere il frastornato camionista a offrirci un passaggio.
Quel che ci lasciammo dietro lo venimmo a sapere la sera, dal TG.

Per anni, vigliaccamente, quando si parlava degli Angeli del fango e vedevo gli occhi delle ragazze luccicare di commozione, buttavo lì con nonchalance un “io c’ero” (sacrosanto che c’ero!) nella speranza di sentir vibrare la lenza.


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