Approfittando delle festività di novembre – i giorni martedì
1, venerdì 4 e domenica 6 consentivano un ponte ghiotto – ero partito da
Brescia per passare qualche giorno a Firenze.
Con me c’era un amico, Luciano Anelli, ora insigne saggista
esperto di pittura dal tardo Cinquecento all’Ottocento, già Direttore
dell’Istituto d’Arte di Brescia, già docente di Teoria del Restauro presso la
Cattolica.
Il nostro risicato budget da studenti non ci consentiva
sciali: eravamo arrivati in autostop, dormivamo con poche lire nell’Ostello
della gioventù di Villa Camerata, mangiavamo panini (imbottendoceli da noi con
l’economica ma saporitissima mortadella), bevevamo l’acqua delle fontane.
Dopo il tour esplorativo, quello d’obbligo per i provinciali
che arrivano per la prima volta Firenze (Duomo-Campanile-Battistero,
Signoria-Loggia dei Lanzi- Ponte Vecchio, San Lorenzo, …), visitammo gli
Uffizi, il Pitti, l’Accademia, forse anche il Bargello. Non ricordo bene.
Ricordo invece che pioveva e che negli spostamenti si andava
sotto scrosci incessanti. L’ombrello, oltre che costare quanto due pasti, non
confaceva al nostro status di autostoppisti (nessuno si ferma a raccogliere un
vagabondo con l’ombrello fradicio): per questo camminavamo rasenti ai muri,
cercando ripari ovunque, scavalcando rigagnoli e pozze, attraversando strade e
piazze a salti, con le scarpe zuppe e i capelli incollati.
Diluviava tutti i giorni, senza tregua, dalla mattina alla
sera, dalla sera alla mattina. Uno scassamento unico.
La sera del 3, nel cupo camerone dell’ostello, avviliti come
il cielo e fradici come spugne, decidemmo di interrompere la vacanza e ritornare
a Brescia.
La mattina del 4, di buon’ora, ci caricammo in spalla i
nostri zaini e – un po’ in autobus e un po’ a piedi, fra rigagnoli ribollenti,
gonfi e terrosi – raggiungemmo il casello autostradale della Certosa di
Galluzzo. Ci appostammo a venti metri dallo stabiotto del casellante (che non
ci voleva sotto le pensiline anche perché – lo diceva esplicitamente un cartello
– in autostrada era vietato fare l’autostop) e sfoderammo i pollici sotto
l’acqua che continuava a cadere, con le sacche in testa per ripararci alla
bell’e meglio, attenti ad evitare gli spruzzi delle macchine e le secchiate dei
camion.
In mezzo a quel cataclisma di piombo nessuno si fermava:
credo di aver battuto quel giorno il mio record personale di attesa (tre,
quattro ore?).
L’acqua che batteva incessante consentiva agli automobilisti
di fingere di ignorare la nostra espressione implorante e disperata.
Quando si avvicinò, rallentando in prossimità della barriera,
un camion targato Brescia, lo assaltammo sbracciandoci e urlando in dialetto
per farci riconoscere di quella nobil
terra natìi --- e costringere il frastornato camionista a offrirci un
passaggio.
Quel che ci lasciammo dietro lo venimmo a sapere la sera,
dal TG.
Per anni, vigliaccamente, quando si parlava degli Angeli del fango e vedevo gli occhi
delle ragazze luccicare di commozione, buttavo lì con nonchalance un “io c’ero”
(sacrosanto che c’ero!) nella speranza di sentir vibrare la lenza.
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