30/04/14

POST SCRIPTUM - GESU' DI NAZARETH di Domenico Coviello


Ho amato molto le cose semplici. Preparare una brace sulla riva per arrostirci sopra del pesce appena pescato dal Lago di Tiberiade, ad esempio. Sono risuscitato dai morti anche per ripetere questo gesto così umano, e ho di nuovo assaporato quel cibo con i miei discepoli. Avevo i buchi dei chiodi ai polsi e sul collo dei piedi. Il costato spezzato da una lancia, la fronte penetrata da spine di rovo, la schiena e il torace flagellati. Ma il mio sangue era rappreso, la ferite rimarginate: non sentivo più il dolore del corpo e l’angoscia del cuore, poiché avevo superato la più grande delle prove.
Non ho voluto sfuggire al destino, poiché sapevo che era nella mente di Dio. La mia missione era chiara. Volevo testimoniare che Dio è come un babbo, una mamma, per ogni uomo e ogni donna sulla Terra. E ogni uomo o donna è fratello a ciascun altro uomo, a ciascun’altra donna. Per questo c’è ancora oggi chi mi dice rivoluzionario. Perché se fosse messo in pratica ciò che ho insegnato la gerarchia piramidale di questo mondo sarebbe ribaltata. Al vertice sarebbero tutti coloro che amano. Che hanno mendicato amore. Disperatamente. Alla base tutti coloro che rinunciano ad amare. Che hanno messo al primo posto il potere, la gloria, la vanità, la forza. Ma il mio Regno non è di questo mondo. E ogni cosa si compirà alla fine dei tempi.

Io cammino ancora e sempre, invisibile, sui marciapiedi delle città, nei sottosuoli della storia, alla ricerca del volto di ciascuno di voi. Sapete bene dove trovarmi. Poiché sta scritto. Ogni volta che vestirete uno dei miei fratelli più piccoli perché è rimasto nudo, gli darete da mangiare perché è affamato, da bere perché è assetato, lo ospiterete perché è straniero, lo visiterete perché è malato, lo andrete a trovare perché è carcerato, ogni volta che avrete fatto questo, lo avrete fatto a me. Io non sono che un mendicante d’amore. Per questo sono venuto sulla Terra. Non posso vivere senza l’amore di ogni uomo e di ogni donna. Io ho bisogno di voi.  
 
 
Le immagini sono tratte da "Il Vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini.

27/04/14

ORA VI RACCONTO ... di Silvia Nardi Dei

Ora vi racconto di un sogno di bambina. Mi è sempre piaciuto molto cantare, l'emozione che si prova quando si libera la voce accompagnati da una musica è qualcosa di miracoloso, per me, che cura i dispiaceri, libera il cuore dalle pesantezze e alleggerisce di ogni preoccupazione. E' come volare, quando riesce bene. La stessa emozione l'ho provata quando, le rare volte in cui mi è riuscito farlo decentemente, ho potuto usare la voce per doppiare qualche attrice, durante il corso di doppiaggio che ho fatto da grande: la voce come unico mezzo per esprimere i sentimenti di qualcun altro, le sue intenzioni e i suoi "retropensieri", è una specie di magia, oltre che una tecnica molto difficile, ma quando ci riesci vuol dire che si è compiuto una sorta di miracolo, è bellissimo.
E' bellissimo perché devi entrare "dentro" l'altro, cioè, devi conoscerlo, capirlo, entrare dentro il suo cuore e diventare lui, ma senza l'aiuto della gestualità del corpo, solo con una parte molto profonda di te, attraverso la voce rendere completamente reale quello che tuo non è, ma come se lo fosse.
Ero una ragazzina, timida e complessata come spesso può capitare quando non sei ancora né carne né pesce.
Abitavo in un paese che non era il mio paese, la mia mamma fu trasferita lì perché insegnava. In più, sempre lei, ma anche il mio babbo sebbene meno "sfegatato", erano parecchio di destra, quindi ben presto mi sentii la figlia della maestra fascista in un paese che negli anni settanta era orientato verso la parte opposta, e dato che il mio cognome è doppio, anche la figlia del conte.
Inoltre non eravamo certo ricchi, ma anzi direi il contrario, per cui ricordo che abbiamo cambiato casa tante volte, sempre in affitto, e sempre, tranne una volta, con una camera in meno (la mia). Per carità, io mi adattavo e anche nel paese, piano piano, riuscii a farmi tanti amici nonostante la politica fosse sempre di mezzo, eludevo i controlli materni e frequentavo chi volevo.
Ma c'era la musica. E un giorno sentii parlare alla radio di un disco che si intitolava "One voice". Era un concerto di Barbra Streisand realizzato nel parco di casa sua in California, nel 1986.
Mi colpì la data: il 6 Settembre, io sono nata il 5. E poi partì una musica, uno dei brani del disco, e fu un colpo al cuore. Conoscevo la Streisand ma come attrice, e devo dire che non mi piaceva, la trovavo brutta e antipatica, nasona, insopportabile e presuntuosa.
A casa non esisteva più il giradischi, ma solo un mangianastri e un primordiale walkman pesantissimo di cui però andavo molto fiera. Quindi decisi che avrei comprato l'audiocassetta e che avrei sicuramente imparato a mente quelle canzoni e cambiato idea sulla nasona.
Ma c'era un problema: erano tutte in inglese e nell'audiocassetta non c'erano i testi.
Allora succedeva che la sera io mi mettessi in cucina, dopo aver velocemente sparecchiato la tavola, (dato che non avevo una camera mia) e con carta e penna riscrivessi le parole delle canzoni che ascoltavo dalle cuffiette. Un lavoro immane: play e stop, play e stop. All'epoca io l'inglese lo sapevo veramente poco, per cui pagherei per ritrovare quei fogli... ricordo che scrivevo il suono delle parole, quindi ad esempio "People who needs people" diventava "pipol hu nids pipol", quando andava bene... altre volte scrivevo appunto solo il suono che sentivo, e chi se ne frega se non vuol dire nulla!
Ma alla fine quei fogli ebbero un senso (per me): potevo cantare, o con la musica in cuffia, oppure, purtroppo per i vicini di casa, dal mangianastri. E spesso mi commuovevo, perché quella musica, quella voce erano davvero meravigliose e il mio tentativo di riprodurre quella magia mi faceva stare bene, soprattutto perché chiudevo gli occhi e immaginavo un pubblico ad ascoltarmi, a godere di quella magia. E poi c'era l'amore: mi chiedevo se anche io, un giorno, avrei mai potuto dire "uot caind ov ful" pensando ad un amore mio...
Ho passato molti pomeriggi, così. Poi naturalmente i sogni restano sogni, e se è vero che qualche "esibizione" l'ho fatta, in qualche gruppo, in un paio di cori, e la magia in qualche modo si è avverata, certo non è andata come sognavo con la Streisand, ma che importa? Mi importa invece ora ricordare quelle sensazioni, ora che sono "grande" e che per caso ho riascoltato, ieri sera, un brano da youtube di quel concerto: l'audiocassetta non ce l'ho più, come molte cose di quel periodo, direi che non ho più nulla, se non i ricordi, tutti. Ma quelle parole storpiate, quella musica, quel ritmo è rimasto dentro di me, e ancora oggi le ricordo esattamente. Mi ha commosso, proprio ieri sera, in un momento in cui sentivo forse il bisogno di alleggerire il mio cuore da una certa pesantezza, e quindi confermo: FUNZIONA! Mi chiedo se anche Giulia, mia figlia, troverà il modo di sognare e di divertirsi, di sfogarsi e di emozionarsi come è successo a me con quell'audiocassetta allora, e come succede tutt'ora quando riascolto quella musica.
Perciò concludo copiandovi il link di quel concerto da youtube: lei resta una nasona, ma le sarò grata a vita per avermi fatto sognare e "duettare" con quel gran fico di Barry Gibb, ecco.

26/04/14

PRENDERE DUE PICCIONI (Coetzee, Ernaux) con Aroldo Marinai


Bel titolo di Annie Ernaux (Passione semplice) per un racconto veloce e cricchiante che ricorda il rumore del cellophan di buona Paolocontiana memoria. 
In una sessantina di pagine intense Ernaux parla di sé oggetto e soggetto di un’infatuazione sconquassante in cui non possiamo non ritrovarci almeno in parte. Le preziose occasioni d’incontro, le insonnie, l’insofferenza verso gli “altri”, le scaramanzie, l’amore fisico fatto col cuore in gola, rabbia e frenesia.
Una confessione che non si cura tanto della forma letteraria ma è pura necessità.

Titolo un po’ scemo di Coetzee (L’infanzia di Gesù) per un lungo racconto di felice ambientazione. Come già in precedenti romanzi il mondo pare sull’orlo della catastrofe, o ne siamo appena usciti e ci stiamo riorganizzando.
Benevolenza è la parola per descrivere la via di salvezza della nuova umanità. Nello scenario apocalittico dei migranti in una terra nuova – pare d’essere su un pianeta alieno - un adulto s’incaponisce a cercare la madre di un bambino disperso e, novello arcangelo Gabriele, decide di affidarlo ad una ragazza scelta d’istinto che prima sbigottisce poi accetta. Mi va di dire che ci sono pagine bellissime, le prime ottanta, per esempio, di grande emozione e lenta costruzione, ma poi con quella scrittura pacata e circostanziata che gli è propria Coetzee rischia di annoiare a morte, spesso riuscendoci. Lo sbadiglio ci accompagna per un buon tratto di lettura, ed è un peccato.
Eh, anche gli scrittori invecchiano. Qualcosa si guadagna qualcosa si perde. In questo caso si perde spazio sullo scaffale dei libri, per dirne una.

Annie Ernaux, PASSIONE SEMPLICE, Bur, 7 euro – forte e onesto

J. M. Coetzee, L’INFANZIA DI GESÚ, Einaudi, 20 euro – bello e impossibile

25/04/14

IL 25 APRILE E' NATA ... di Gianni Caverni

Il 25 aprile

è nat'una puttana

e le hanno messo nome

Democrazia Cristiana.

Ora la Democrazia Cristiana non c'è più, o c'è ancora ma sotto falso nome, ma lasciamo perdere.

Era il 25 aprile del 1974, avevo 27 anni e ero già sposato da 2. Da molti anni non mi sono mai dimenticato ogni 25 aprile di ringraziare Nicoletta che allora era mia moglie e che, consapevole del mio smarrimento che finiva per somigliare molto all'ansia e forse addirittura alla paura, decise di accompagnarmi a Sassari. Fu quello il nostro primo volo e ricordo ancora lo strano effetto che mi fece vedere fra le nuvole il mare invece del cielo.

Non solo mi accompagnò, ma stette diversi giorni da un affittacamere così che verso le 18, alla libera uscita ci incontravamo, cenavamo insieme e poi rientravo a "Punta Secca" (?) dove c'era la caserma: insomma proprio il 25 aprile cominciai a fare il militare, a Sassari.

"Sa vida pro sa Patria" c'era scritto ovunque, e a lettere cubitali sul piazzale delle adunate, era (è) il motto della Brigata Sassari. Io che non avevo ancora visto un accidente del mondo e della vita lo tradussi in La sua vita per la sua Patria. Ma la sua vita di chi?

Il militare?! Avevo contato fino ad allora sui miei abborracciati studi ad architettura per rimandare, e poi ero C4 che voleva dire che probabilmente non mi avrebbero chiamato e comunque non avrei fatto i servizi armati. Facevo l'insegnante, ero sindacalista e membro di un gruppuscolo estremista locale, di quelli che non gli andava mai bene nulla, complottista, dogmatico e settario: insomma ero un cretino. Come insegnante no, però.

Mi sembra proprio che tutto quello che so di politica, ammesso che ne sappia qualcosa, l'ho imparato dopo, quando ho smesso di farla, ammesso che ne avessi fatta prima.

Cos'era il 25 aprile lo sapevo, cos'era la Liberazione, la lotta partigiana, ma pensavo (pensavo è una parola grossa) che la Resistenza fosse stata una rivoluzione interrotta per volere di Togliatti e del gruppo dirigente del PCI che era ormai senza il minimo dubbio un partito revisionista (che in quegli anni a dare a qualcuno del revisionista si offendeva di più che se gli dicevi che aveva la mamma troia).

Si mangiò qualcosa in un bar di piazza Italia, il cielo a Sassari era diventato grigio, compatto, come è questo 25 aprile qui a Firenze.

 Nel pomeriggio entrai in caserma dopo un bacio e, da lontano, un saluto sorridente a pugno chiuso a Nicoletta. Mi sa che giocavo un po' a "Proletari in divisa" che era allora l'organizzazione che mirava a sviluppare una qualche vigilanza democratica interna alla struttura militare che proprio nel '74 era in odore di golpismo.

Subito mi legai a un paio di compagni, Mino e Massimo, ma la nostra opposizione alla retorica dell'ubbidienza e del militarismo si espresse col farsi i capelli biondissimi (e improbabili) con l'acqua ossigenata e vedere la faccia dei caporali e dei tenenti che ci guardavano sospettosi probabilmente non tanto della nostra tempra di rivoluzionari quanto dei nostri orientamenti sessuali.

Diceva una mia amica che ogni maschio non sa resistere e prima o poi racconta un insopportabile aneddoto della sua vita sotto la naja: ecco, fatto!

Stavolta ho usato davvero troppe parole, quello che volevo dire in fondo era solo grazie Nicoletta.

23/04/14

POVERO POLLOCK, POVERO MICHELANGELO di Gianni Caverni

Con piglio audace, compatti come un sol'uomo, alla scoperta dell'acqua calda!
Dal vicesindaco/futursindaco Dario Nardella (Siamo felici di esserci lasciati tentare da questa avventura. Firenze non sarebbe Firenze se non si fosse mossa fuori dai confini prestabiliti, se si fosse accontentata dei risultati ottenuti smettendo di innovare, di guardare al futuro, di mettersi in gioco, di tentare nuovi traguardi. E ancora La sfida tra due geni "furiosi" quali Pollock e Michelangelo c'invita a riflettere non solo sul valore intrinseco delle opere esposte, ma sull'alto senso di una città che non teme di lasciarsi sedurre dall'inesplorato) all'Assessore alla Cultura e alla Contemporaneità del Comune di Firenze Sergio Givone (Una mostra difficile, dunque, che assume per noi tutto il sapore di una sfida. Sfida alta, altissima, ardita. Che Firenze non ha paura di lanciare) si alzano gli squilli delle chiarine per celebrare a dovere il grande coraggio degli amministratori e della città tutta nell'aver accolto ed organizzato "Jackson Pollock - La figura della furia", ossia la mostra che, fra Palazzo Vecchio e San Firenze, apparenta il dio dell'Action Painting a Michelangelo, il genio di Caprese.

Oddio, un certo coraggio c'è voluto davvero. Va bene che critici, storici dell'arte, organizzatori, se ci si mettono di buzzo buono riescono a trovare collegamenti e relazioni anche fra il rettangolo aureo e la cedrata Tassoni ma qui vedere collegare a tutti i costi l'incolpevole Jackson Pollock all'altrettanto incolpevole Michelangelo Buonarroti fa scaturire immediatamente la domanda su chi sia il pusher capace di fornire roba tanto sopraffina.

Si sono presi un paio di taccuini di disegni, anche pochini, conservati al Metropolitan di NY grazie a un'anonima donazione del 1990 e da allora esposti una sola volta dal museo stesso, per partire in voli pindarici così arditi che il povero Pindaro pare un dilettante (" La comprensione di Pollock è possibile solo a partire da Michelangelo ... Pollock torna a casa sua, non sappiamo se sia mai stato a Firenze, ma all'ombra di Michelangelo si è formato ... Qui si presenta un modello: il maestro e l'allievo", Givone dixit). Insomma pochi disegni mediocri fatti guardando le riproduzioni a stampa della Cappella Sistina, disegni realizzati fra i 25 e i 27 anni, dei quali probabilmente lo stesso Jackson, si è ben presto dimenticato.
Un certo coraggio c'è voluto anche nel costruire un monolocale (ampiamente finestrato sito in condominio prestigioso) nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio per mettere in mostra invece pochi quadri e carte del Pollock vero, quello del drip painting.

Ma soprattutto molto coraggio c'è voluto per affiancare a un Sergio Risaliti, a volte discusso ma senz'altro competente, la giovane "filosofa" Francesca Campana Comparini. Sembra un po' di sparare sulla croce rossa nel ricordare che Francesca ha 27 anni e nessun incarico di una qualche significanza al suo attivo.
Certo è che è la prossima sposa di Marco Carrai, l'imprenditore che piace al mondo ciellino, presidente dell'aeroporto fiorentino, membro del Cda dell'Ente Cassa di Risparmio di Firenze, presidente per 3 anni della municipalizzata Firenze Parcheggi, principale punto d'unione con il mondo degli affari e con gli ambienti internazionali (soprattutto americani) dell'amico Matteo Renzi al quale, pagava l'affitto della famosa casa di via degli Alfani, quella che gli ha permesso di avere la residenza fiorentina necessaria per poter scattare nella corsa a sindaco, seconda tappa dell'irresistibile carriera politica del giovane premier. Ecco il nuovo che avanza!
Tornando alla mostra decisamente suggestivo l'allestimento nell'ex palazzo di giustizia di piazza San Firenze dove in due sale si snodano alle pareti, sul pavimento e sul soffitto, come in una grande e coinvolgente wunderkammer,  immagini fisse e in movimento del Pollock geniale rivoluzionario dell'arte del '900. Senza ammorbarci troppo con l'improbabile relazione col Buonarroti.

Fino al 27 luglio, 12,00 euro (9,00 ridotti), www.pollockfirenze.it.

22/04/14

FIGLIO D'ARTE (PRIMA PARTE) di Nicola Nuti

Che mio padre Mario Nuti fosse un artista, per me era un dato acquisito, come per gli altri ragazzi che avevano il padre impiegato, artigiano o che so io. Consideravo secondario che avesse anche un impiego fisso. Lui, infatti, insegnava in un liceo artistico da quando si era reso conto che dipingere, collaborare a La Nazione come illustratore e fare ceramiche (soprattutto dopo che un cospicuo ordine per l’America era finito sotto il mare con l’Andrea Doria), non era sufficiente a mantenere una famiglia. Era il babbo insegnante, che portava i soldi a casa; ma era il babbo artista che mi riempiva la vita di personaggi strani e interessanti, di imprevisti, di ritardi a cena, assenze ingiustificate, di libri e dipinti ancora fragranti di vernice. Era come se la mia famiglia vivesse in due mondi diversi che si compenetravano e riscattavano l'un l'altro. Cosí la vedevo io.

Da quando ci siamo conosciuti, mio padre ha avuto due studi, sempre nella parte più popolare di Firenze, fatta di stradicciole con l'intonaco sbollato e dilavato, su cui si affacciavano gli antri degli artigiani e dove, per tutto il giorno, si rincorrevano le voci, i richiami, le imprecazioni, le risate di un intero quartiere. Il primo, era uno stanzone che la mia anziana tata gli affittava in casa sua per poche lire, in Borgo Tegolaio; l'altro, era in fondo alla stessa strada, che condivideva con un amico restauratore e pittore. Al babbo non piaceva che lo andassi a trovare allo studio: quello era il suo mondo e quando mi permetteva di entrarci, lo faceva con una sorta di affetto sospettoso verso quel bambino che ero allora, con le sue domande imbarazzanti (“perché dipingi così poco?”, “Perché non fai le figure?”, “Posso dipingere qualcosa anch'io?”) e la sua mania di infilare le mani dappertutto. Mi piaceva lo studio del babbo: ritrovavo cose vecchie, sparite da casa e ricomparse lì. C'era un affollamento di oggetti, odori, immagini, come in un negozio di rigattiere. Sul grande tavolo era appoggiata una spessa tavoletta di compensato con colori freschi secchi, quasi secchi, grumi di cenere di sigaretta, tappi di tubetti e stucco abbandonato. L'odore della sua acqua di colonia si mescolava a quello della trementina, della polvere, dell'olio di lino, dell'orina lasciata a fermentare nella tazza del gabinetto e del fumo della stufa in cui veniva bruciato di tutto. Era comunque un' isola, quella, dove non arrivava la donna delle pulizie né mia madre. Dove non percepivi il fermento, il dibattito culturale e politico che pure animava la città e il paese tutto, in quegli anni di post – boom economico. Là dentro entravano solo amici, collezionisti, e uno o due mercanti. Io mi vendicavo della diffidenza che aveva mio padre nei miei confronti ironizzando sulla pittura, dicendo che quei quadri avrei potuto farli anch'io (quante volte mi è toccato, poi, sentire questa frase da chi si trovava disarmato di fronte alle opere meno convenzionali), visto che in quel periodo mio padre stava approfondendo la tecnica informale. Arrivai persino al punto, una volta, di affacciarmi in salotto, mentre il babbo stava trattando con un collezionista, e, sbirciata la cifra sull'assegno che l'altro stava porgendo, esclamare: “Come, tanti soldi per questo quadretto? Accidenti!”

Per punizione dovetti promettere che avrei aiutato la mamma a preparare il buffet, all'indomani della personale che la galleria Michaud, una delle più importanti della città, avrebbe allestito per mio padre. Ricordo cumuli di olive, di pancarré a quadretti da spalmare con burro e salse multicolore, da riempire con prosciutto o salame; dolcetti da sistemare sui vassoi, sfilze di cetriolini da tagliare per le decorazioni, coppette di caviale appiccicoso da disporre in ciotole più grandi piene di ghiaccio. Quello fu il mio primo contributo all'organizzazione di una mostra. 

Per il mercato dell' arte era un'epoca spensierata: tra gli anni Sessanta e Settanta, tutti compravano di tutto. I galleristi vendevano agli impiegati, ai professionisti, ai bancari, ai neo-milionari, a gente dello spettacolo, e, molto spesso anche agli altri galleristi. I quadri non stavano mai fermi, e neppure i falsari: un semplice appassionato che avesse voluto portarsi a casa un autore affermato, anche vivente, aveva una possibilità su tre di imbattersi in un falso. Fiorivano i premi nazionali, a cui si partecipava solo se si conosceva qualcuno della giuria o se si era presentati da un mercante di potere. Arte e politica andavano a braccetto: mentre Guttuso rappresentava i valori estetici e poetici del realismo, difeso a oltranza dal Pci, Togliatti stigmatizzava l'arte astratta quale pericolosa deviazione borghese, fenomeno elitario da intellettuali, insomma, roba che, secondo la nomenklatura, un operaio non avrebbe potuto capire. Togliatti se l'era presa perfino con Cagli, nonostante che l'artista fosse stato un ex figurativo e che il critico militante Antonello Trombadori avesse profuso un grande impegno per riscattarlo dal suo coinvolgimento nella politica culturale del fascismo prebellico. Su queste basi, era facile che una città come Firenze riscoprisse la propria vocazione oltranzista a schierarsi su fronti opposti, come Guelfi e Ghibellini. Ben lontani dal concepire l'astrattismo come linguaggio espressivo di un mondo fatto di ritmi ed equilibri formali e cromatici, critica e pubblico vedevano nella non - figurazione un vero e proprio attentato alla tradizione, un maldestro e arrogante tentativo di tradurre la realtà in semplici linee e colori, insomma un insulto, uno sputo dritto negli occhi di Michelangelo e Masaccio.

Da qui la frequente domanda: “e questo cosa rappresenterebbe?”, e l'intramontabile: “questo potrei farlo anch'io”, nonché gli strali dei competenti: chi difendeva il realismo sociale, chi il realismo espressionista, chi la propria posizione ideologica, chi era contro e basta. Alle inaugurazioni delle mostre ci si accapigliava, si discuteva: non di rado volavano offese e qualche schiaffo; più d'una volta i quadri vennero sfregiati. L'astrattismo o comunque l'arte informale a Firenze veniva vista come un epifenomeno o se vogliamo una stramberia passeggera. Non importava che fosse difesa da Michelucci o da altri intellettuali e critici e che in Italia si fossero formate altre correnti di arte astratta. Il fiorentino, per definizione, ne sa più di tutti e se l'astrattismo sembrava una cosa assurda, così doveva essere. SI dibatteva alla Casa del popolo, si litigava nelle gallerie, ci si insultava anche sulle pagine dei giornali, si creavano alleanze, faide, si rompevano amicizie, mentre il mercato, quello vero, nel resto d'Italia se ne infischiava e prosperava.

L'economia di Firenze, del resto, era un'economia statica, fatta di artigiani e commercianti, ma soprattutto basata sulle speculazioni immobiliari del dopoguerra: chi aveva fondi e case poteva fare il prezzo che voleva.

17/04/14

POST SCRIPTUM - GABO: IL MONDO E' ANCORA COSI' RECENTE di Domenico Coviello


Che vi avevo detto. L’ho sempre saputo. E ora che il mio corpo è morto, il mio spirito vede tutto chiaro: la realtà sulla Terra (e anche quassù, in questo curioso e divertente non-luogo dove mi sento sbalzato all’improvviso) è molto più magica di quanto voi possiate pensare.

Sì, la realtà dei Caraibi è più magica di quanto si creda, come ho cercato di raccontare nei miei libri. Ma lo è anche la realtà in generale. In fondo qual è il confine fra ciò che posso toccare con mano e ciò che immagino con il volo alto oppure radente della fantasia?
Vabbè.. sto filosofeggiando e già mi vengo a noia. Certo che libero da quella demenza senile che mi aveva offuscato negli ultimi anni di vita adesso mi sento meglio. Chissà, però. Ora che ci penso. In fondo negli ultimi anni di sofferenza non ero infelice: le anime dei miei antenati e di tutti i morti che ho amato sul mio pianeta mi stavano prendendo per mano. Destinazione: la chiaroveggenza eterna. Niente male come possibilità da esplorare. Se vivrò senza più lo spazio né il tempo, sarà per raccontarla, naturalmente.
L’importante per me è ritrovare la Macondo del colonnello Aureliano Buendìa con le sue venti case di argilla e canna selvatica. Poter passeggiare da solo per i vicoli del vecchio centro di Cartagena. Fermarmi a parlare con un tassista di Cadillac, un portiere di quel condominio fatiscente e fiero, una vecchia matrona prostituta, seduta a stento su certe seggiole impagliate male davanti all’uscio di una catapecchia.
E’ da loro che ho imparato il sistema geometricamente perfetto della fantasia che spiega e giustifica la realtà. E’ da loro che ho appreso la sovranità assoluta della solitudine su ciascuno di noi. Da loro ho imparato ad amarla e a soffrirla, la solitudine. E non mi è bastata una vita per descriverla. Ma ancora adesso per me, il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito. Perciò godetevelo. Quel nostro strepitoso mondo infame.

14/04/14

IL MEMENTO MORI DI GRASSINO di Nicola Nuti

Non conoscevo Paolo Grassino, che espone da sabato 12 aprile al nuovo spazio della galleria Eduardo Secci aperta per l'occasione in via Maggio, ma non mi ha sorpreso tanto l'enorme teschio nero fatto di forassite che occupava la main view dell'intero spazio espositivo, quanto l'assalto di ie...ne in fusione d'alluminio che mi attendeva al piano inferiore.  
Gli inquietanti occhi neri delle bestie dicevano che erano pronte all'attacco, ma, sorpresa, girando intorno al branco, ti sentivi al sicuro, eri uno di loro, protetto e anche tu pronto all'attacco.
Quando un'opera d'arte è azzeccata riesce sempre a comunicarti più messaggi, perfino contrastanti tra loro. Anche per questa sua capacità metamorfica e polisemantica, amo l'arte. Ma torniamo alle opere di Grassino: la loro particolarità è che sembrano scaturire direttamente da un disegno, anzi, da uno di quei fumetti dark degli anni passati. Anche il teschione di tubi di plastica sembra realizzato con un segno a matita che poi, ghirigoro, dopo ghirigoro, si è materializzato in tre dimensioni. Vogliamo esagerare, giusto per leziosità? Ecco, mi ricordava certi ritratti disegnati da Giacometti.
Non conoscevo Grassino, ma mi sono convinto che è un artista da seguire, per il suo interesse spregiudicato verso le evidenze organiche della nostra esistenza, casomai ci fossimo dimenticati d'esser fatti di carne e ossa destinate alla polvere.
Un moderno memento mori, questo di Grassino, e chi non teme la verità sulla vita farebbe bene a visitare questa mostra.
Fino al 31 maggio. Ingresso libero.
Curatore: Marco Meneguzzo.

11/04/14

SIENI DIALOGA CON PONTORMO E ROSSO di Gianni Caverni

Con uno dei suoi soliti panciotti sgargianti e con quel delizioso accento che fa somigliare la sua voce a quella di Alan Friedman (che a sua volta somiglia a quella di Ollio) James Bredburn dichiara che da quando è arrivato a Firenze per dirigere l'attività espositiva di Palazzo Strozzi, ormai ben sette anni orsono, finalmente può coronare un sogno: lavorare con Virgilio Sieni, coreografo e danzatore che dal 2003 dirige a Firenze CANGO Cantieri Goldonetta e che dal 2013 dirige il settore danza della Biennale di Venezia.
 
Il primo frutto di questo incontro è Corpus_Deposizioni e Visitazioni, ossia 9 quadri coreografici di deposizioni e visitazioni "che prendono ispirazione - racconta Sieni - dai capolavori di Pontormo e Rosso Fiorentino, protagonisti della fantastica mostra che sta avendo un ottimo successo e che si articola al piano nobile di Palazzo Strozzi.
"Sono azioni coreografiche che impegnano 50 interpreti, ballerini ma anche anziani, artigiani, giovanissimi, intorno ai gesti del depositare con cura, amore ed attenzione un corpo e dell'abbraccio della visita".
Domani sabato 12 aprile, alle 21,15 ed alle 22,15, sette delle sale occupate dalla mostra si animeranno dei gesti, frutto di mesi di lavoro, studiati per dialogare con le opere bellissime dei due manieristi appese alle pareti.
"Il pubblico - continua Sieni - sarà libero di spostarsi fra le sale e le performance coreografiche costruendosi così la propria drammaturgia e mettendo insieme un po' casualmente e molto in base alle sue scelte il suo proprio spettacolo. Ogni coreografia avrà la durata di 30 minuti". In due sale andrà in scena un dittico, ossia due coreografie, della durata di 15 minuti, una immediatamente successiva all'altra.
Il 9 maggio, alle 19,30 ed alle 21, andrà in scena nel cortile del Cronaca Agorà_Madri e figli, un'azione collettiva interpretata da 9 coppie, anzi nuclei familiari veri, composti come dal titolo. Madri e figli trova ragione d'essere nell'ispirazione e nel dialogo con le opere dei due grandi maestri manieristi e con quelle contemporanee raccolte nella mostra Questioni di famiglia allestita nel Centro di Cultura Contemporanea la Strozzina.
Mi è piaciuto fotografare alcune pagine di Laboratorio d'arte sul corpo - Deposizioni e Visitazioni / Agorà madri e figli il volume edito da Maschietto Editore che rende conto del lavoro preparatorio realizzato da Virgilio Sieni per questa occasione.

09/04/14

QUATTRO NASI, UNA BELLA PANCIA E IL CHA CHA CHA = MR. MORGAN di Gianni Caverni


In primis c'è il naso di Michael Caine, un naso bellissimo, un naso nobile, quello che abbiamo sempre apprezzato durante tutta la sua straordinaria carriera. Qui, in Mr. Morgan, il film di Sandra Nettelbeck che uscirà nelle sale domani e che abbiamo visto in anteprima allo Stensen, il naso di Caine assume sicuro il ruolo del protagonista nel mezzo della bella faccia dell'attore che ci consegna una prova di intensità magistrale.
Vedovo, disperato, instabile (in tutti i sensi) perché vecchio, solo, protetto si fa per dire dai suoi libri, ben disposto al suicidio se pur maldestro e a farsi prendere in giro dalle commesse pur di non imparare una parola di francese nei tre anni in cui ha scelto di vivere a Parigi, lui ex professore di filosofia, americano.
 
Il secondo naso è del tutto diverso, non nobile ma classico, greco, forse, italico, forse popolare, appartiene alla bionda giovane Pauline (Clémence Poésy) che incontra Morgan in autobus e se ne occupa. Ecco, se ne occupa, ed è una cosa straordinaria, è inutile negarlo. Perché lo fa con gioia ed allegria.
 
E' anche lei insegnante ma di cha cha cha e quando la vedi ballare fra i suoi allievi ti accorgi che non è affatto quella pallida ragazza qualsiasi che vedevi solo pochi minuti prima.
 
Gira e rigira viene in mente Lolita? Il patetico racconto dell'ultimo colpo di coda del bel vecchio? Non ci siamo! E' amicizia, bella e buona. E basta vedere il sorriso sotto il bel naso di Caine per rendersene conto. Ma lui si sente male (se è vecchio è vecchio!) ed arrivano dall'America, non si sa quanto preoccupati, i due figli proprietari a loro volta ognuno di un naso notevole. Lei, vacua bella bionda, fra shopping (già che c'è) e telefonate, è interpretata da Gillian Armstrong, l'indimenticata Dana Scully di X Files, che per mantenere quella linea non può mangiare più di un grissino la settimana.
Si occupa del padre quanto me ne occupo io (di suo padre) e presto tornerà a Chicago per salvare il marito che sta per soccombere nell'impresa di occuparsi a sua volta dei figli per la prima volta. Per tornare ai nasi quello di Gillian ci ha fatto sognare a partire dal '93 sul piccolo schermo, insomma si sa di che si parla! Di un bel naso medievale, pieno di personalità e di storia, è indossatore lo strabello Justin Kirk, il figlio maschio di Morgan, che se lo porta a giro nel film come se fosse una cosa ovvia: curvo, attento, un po' arrogante quel naso lì fa subito la parte dello stronzo vedendo in Pauline l'arrivista che illude il vecchio citrullo per accaparrarsi i suoi non trascurabili beni. Intanto Michael Caine sfoggia sia a lezione di cha cha cha che nelle aspre e rancorose discussioni col figlio una bella e tenera, per niente dissimulata, anzi portata con orgoglio come le famose rughe della Magnani, pancia da vecchio. A questo punto ci si accorge bene che c'è un rischio: stai a vedere, ti dici, che Sandra Nettelbeck casca nella cacca di un finale lieto e per niente sorprendente? Si, è così. Pazienza, secondo me il film merita lo stesso di essere visto: ci sono dei signori nasi, fidatevi!
PS: è vero, Justin Kirk è davvero bello, ma vi giuro che non è l'invidia che mi fa dire che ha la fronte di chi perderà presto i capelli.
PPS: le foto sono poche ma a un certo punto una signora seduta dietro a me mi ha battuto sulla spalla e mi ha fatto categoricamente capire che lo schermo luminoso del mio cellulare la disturbava. Io quando chi mi brontola ha chiaramente ragione mi viene una rabbia!

06/04/14

LA CASA DEL PESCE PIETRA di Sara Rados

 

Sette finestre, s'una grande parete beige: io fumo, ce le ho davanti perché sto fuori

affacciata, a mezzanotte e otto.

Questo appartamento unto non merita neanche di essere odiato: e poi puzza, di

qualche cosa che forse una volta era bello: una volta, forse, meritava di essere amato

oppure odiato.

Di là qualcuno, con l'accento forte del Brasile, sta parlando ancora e non è stanco.

Mentre disegno l’uvaspina dei ricordi, sulle rughe nere del divano che so guardare con

la memoria, alle mie spalle, faccio pari e patta con l' animale meccanico che è qui nella

mia pancia.

 
 

Placare la fame dei nervi significa convincere lo spirito che il suo appetito non esiste per

davvero. Ricordargli che il corpo ha già mangiato a sufficienza: e l'anima glielo spiega

con la pazienza perifrastica delle maestrine e la cortesia operosa dei garzoni.

Ma perché io prendo e dimentico? E perché salvo le carte, ma non tutte – mettendole

via - delle cioccolate che ingollo? Perché prendo e dimentico?

 

Domani butterò un paio di scarpe brutte. Scarpe brutte che ho comprato poco convinta

e che poi ho conservato. Inciamperò il terzo giorno, come un disattento Cristo scemo. E

i rimorsi verranno come Guardie Svizzere imbarazzate e in ritardo, le Guardie Svizzere

della Papessa dalle Scarpe Brutte. Ma fin lì non sarà certo un affare che mi riguarda: mi

alzo ancora, per ora. Questo conta.

 

 Mi alzo per salvare la mia merda, il mio buongusto - ma non tutto - come le carte della

cioccolata.

Uno dei miei animali preferiti è il Pesce Pietra.

 
 
 

È velenosissimo e irregolare nelle forme e nel colore. Va avanti dritto per la sua strada e

non devi rompergli i coglioni.

E’ un capolavoro della natura, un angelo sterminatore del gran blu.

Lui non è cattivo. E’ semplicemente il Pesce Pietra. E il suo modo di abitare le profondità

marine è procedere lento, mimetico, risolvendo in maniera elementare l’inconveniente

numero uno nella vita d'un qualunque essere vivente: incappare in qualsiasi altro

essere vivente. Trak, lui sputa veleno. Così. Mica per cattiveria. Solo perché lui è il Pesce

Pietra.

Chissà se anche lui conserva qualcosa, magari in qualche tana, in qualche suo

misterioso rifugio, e in modo maniacale quel qualcosa lo accumula e immagazzina,

come faccio io, con le carte della cioccolata. Forse nasconde e custodisce i resti delle

sue vittime, quelle a cui sputa il veleno.

 
 

 

Lui ha i suoi piccoli pescetti, come io i miei

quadratini neri, a volte anche bianchi, o marrone più chiaro: è passione robotica

comunque, sangue invisibile, un istinto primordiale ch'è diventato proverbiale, oramai

soltanto ridicolo, decaduto com'è dai tomi d'Etologia all'angoletto "Curiosità" della

Settimana Enigmistica, dove anch'io del resto, ho potuto apprendere della sua

 

esistenza: l'esistenza del Pesce Pietra.




E quanta gente, in egual modo, legge le notizie sull'ingordigia patinata dei bulimici,

dentro i forum coi cuori neri e rosa, nelle rubriche dei giornali per animali col cuore

molle che vuole commuoversi.

Anche la mia ossessione è decaduta. Poi è deceduta, e sopra c'è la lapide: "curiosità da

rivista".

Sono certa che tra me e il Pesce Pietra la cosa sarebbe reciproca, ci sarebbe intesa.

Anche io gli piacerei. Forse mi grazierebbe, e non mi sputerebbe il suo veleno, se mi

incontrasse. E poi Lui, come me, detesterebbe questo appartamento unto: le tazze della

colazione, di chissà quante colazioni fa, che nessuno se ne cura, nessuno ha il coraggio

anche solo di toccarle o di esaminarle da vicino.

L'odore di Hashish sin dalla prima mattina ed il perfetto contrappunto sonoro: una voce

metallica da padrone di casa senza mai barba fatta, che rincara di Tavor, Depakin, con

tutti quegli effetti collaterali, dati dalla mescolanza e dall'esagerazione. Un'orchestra

costante di polvere e fumo, mostri in carne ed ossa, nei corridoi di questa casa. Una

cosa che inizia la mattina presto e la sera tardi fa fatica a chetarsi.

 
 
 

Scordo, prendo. Ma ora le mie dita scorrono, dentro al Dizionario Enciclopedico

Universale: l'ho adocchiato s'un mobilino cadente nell'anticamera del salone, mentre

stavo andando nella mia stanza, a scartare una cioccolata, forse la numero mille e

cento.

 
 

 

Ma da ora niente più tavolette fondenti o al latte o pralinate: ora è diventato il

giorno in cui salverò il Pesce Pietra, dallo scherno, ch'è peggio dell'oblio, che la giustizia

sommaria della "Settimana Enigmistica" gli aveva riservato. E questo Dizionario

Enciclopedico è un paracadute demodé e fatiscente, con cui mi sto per lanciare dentro

un cielo verticale di descrizioni sconosciute.

E scorro, piena di gioia nuova le pagine ingiallite, trovando anche più di quel che

speravo: c'è una sua bella foto grossa a colori, c'è una figura affascinante e minacciosa.

Ci sono tante informazioni interessanti sul conto del Pesce Pietra: un ordito che

intimidirà per sempre tutte le curiosità di tutte le settimane enigmistiche della storia.

                                                       

 

Mi cerco un'altra casa, ho deciso. Ma finché sto qui, in questi giorni, mi guardo un po' di quelle

 

 parole che non avevo mai

avuto il tempo, e la voglia, in questi anni, di sapere che cosa diavolo significassero.



Le immagini sono state scelte ed elaborate da Sara Rados