“Babbo, ma se continua a salire dove
si va?”.
E lui: “li vedi quegli alberi
laggiù... ecco, si va lì. Ti aggrappi alle mie spalle e ti ci porto
a nuoto.”
Avevo 7 anni, la finestra era al
secondo piano della “stradina”: un interno di via Aretina. E
quegli alberi laggiù svettavano altissimi nel parco di San Salvi.
Per vedere la melma che ci stava
invadendo dovevo tirarmi sul davanzale con i gomiti. Poi mi
lasciarono salire in ginocchio su una sedia, allora sporgendomi
vedevo bene anche via Aretina. Laggiù tutto correva. Travolti da
impetuose onde marroni passavano cartelli stradali, rami, mobili,
macchine, biciclette, materassi, di tutto.
Il quattro novembre 1966 l'ho vissuto
tra le finestre di casa e il pianerottolo condominiale. Le scale
erano il mio idrometro e mio babbo il capo a cui riferire.
“Babbo, è salita un altro scalino...
tra cinque scalini sarà al primo piano.”
“Non ti preoccupare, per arrivare da
noi deve fare altre due rampe, e non ce la farà...”.
Rideva il babbo. In quella circostanza
me la metteva sul ridere.
Tempo dopo ho saputo che al mattino
aveva portato su a spalla i due anziani del piano terra. Lui, vero
comunista incallito, aveva anche aspettato, con l'acqua già alla
coscia, che salvassero alcuni libri e ritratti del duce a cui
evidentemente tenevano molto.
Poi, con l'aiuto di altri due uomini,
era riuscito ad attraversare fino al bastione della ferrovia e andare
verso Campo di Marte, ancora non invaso dall'acqua, per trovare
qualche filone di pane.
Io guardavo quelli dei piani di sotto
che si abbracciavano in casa mia. Alcuni piangevano. E io non avevo
mai visto piangere “i grandi”. Stavano tutti lì e la mamma
trovava qualcosa da mangiare e una buona parola per tutti.
Quando sentivo il rumore dell'elicottero
correvo alla finestra di cucina e mi piazzavo lì con occhi sgranati
come al cinema. Portava in salvo quelli sopra i tetti delle casine
basse.
Un elicottero rosso, con la cabina di
vetro stondato come l'occhio di un insetto. Mi incantavo a guardarlo.
Poi uno signora cadde giù. Io la vidi bene quella scena. Il cavo la
tirava su imbracata, poi a un certo punto gli abiti rimasero appesi
all'imbracatura e lei ci scivolo dentro ricadendo giù di schianto
sul tetto. Ho poi saputo che morì dopo qualche giorno in ospedale.
Dopo tante ore di angoscia, l'acqua
cominciò finalmente a scendere e fummo tutti devastati dalla gioia.
Poi vennero giorni di pale e sciantillì
(stivali per gli italiani) in mezzo al puzzo di kerosene e carcasse
di utilitarie.
Ho ancora viva l'immagine dei giardini
di Bellariva pochi giorni dopo. Erano i nostri campini, ci giocavamo
a calcio ogni giorno e fummo i primi ad andarci. Erano diventati una
perfetta, lucida, uniforme distesa marrone. Un marroncino chiaro.
Quel giorno pensavamo di essere noi a
lasciare le nostre impronte profonde nello spesso strato di fango, in
realtà era quel fango che stava lasciando la sua profonda indelebile
impronta dentro di noi.
Mi piace l'autenticità, l'assenza di retorica, la commozione sobria. Mi piace.
RispondiEliminaGrazie...
EliminaBella la tua visione di quel dramma visto con gli occhi di un bambino..... io, che ancora non esistevo ho vissuto quel momento leggendo il tuo racconto.... e il tuo babbo che ti promette di salvarti portandosi a nuoto fino agli alti alberi di San Salvi mi ha fatto venire in mente "La vita è bella"... Bea
RispondiEliminaGrazie... troppo gentile...
EliminaGrazie Stefano per aver condiviso questo ricordo ...
RispondiEliminaGrazie a te per averlo letto e commentato...
EliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminami piaciuto
RispondiEliminaCiao Aroldo... grazie.
Eliminabel racconto, fresco e disincantato, proprio come può esserlo attraverso lo sguardo di un bambino!
RispondiEliminaGrazie....
EliminaBello, mi ha commosso...anche se non mi è nuovo:)
RispondiEliminabravo babbo
Grazie Ila. Mi fa molto piacere il tuo commento. Bacione.
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