03/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Stefano Tanini

“Babbo, ma se continua a salire dove si va?”.
E lui: “li vedi quegli alberi laggiù... ecco, si va lì. Ti aggrappi alle mie spalle e ti ci porto a nuoto.”
Avevo 7 anni, la finestra era al secondo piano della “stradina”: un interno di via Aretina. E quegli alberi laggiù svettavano altissimi nel parco di San Salvi.
Per vedere la melma che ci stava invadendo dovevo tirarmi sul davanzale con i gomiti. Poi mi lasciarono salire in ginocchio su una sedia, allora sporgendomi vedevo bene anche via Aretina. Laggiù tutto correva. Travolti da impetuose onde marroni passavano cartelli stradali, rami, mobili, macchine, biciclette, materassi, di tutto.

Il quattro novembre 1966 l'ho vissuto tra le finestre di casa e il pianerottolo condominiale. Le scale erano il mio idrometro e mio babbo il capo a cui riferire.
“Babbo, è salita un altro scalino... tra cinque scalini sarà al primo piano.”
“Non ti preoccupare, per arrivare da noi deve fare altre due rampe, e non ce la farà...”.
Rideva il babbo. In quella circostanza me la metteva sul ridere.
Tempo dopo ho saputo che al mattino aveva portato su a spalla i due anziani del piano terra. Lui, vero comunista incallito, aveva anche aspettato, con l'acqua già alla coscia, che salvassero alcuni libri e ritratti del duce a cui evidentemente tenevano molto.

Poi, con l'aiuto di altri due uomini, era riuscito ad attraversare fino al bastione della ferrovia e andare verso Campo di Marte, ancora non invaso dall'acqua, per trovare qualche filone di pane.
Io guardavo quelli dei piani di sotto che si abbracciavano in casa mia. Alcuni piangevano. E io non avevo mai visto piangere “i grandi”. Stavano tutti lì e la mamma trovava qualcosa da mangiare e una buona parola per tutti.
Quando sentivo il rumore dell'elicottero correvo alla finestra di cucina e mi piazzavo lì con occhi sgranati come al cinema. Portava in salvo quelli sopra i tetti delle casine basse.
Un elicottero rosso, con la cabina di vetro stondato come l'occhio di un insetto. Mi incantavo a guardarlo. Poi uno signora cadde giù. Io la vidi bene quella scena. Il cavo la tirava su imbracata, poi a un certo punto gli abiti rimasero appesi all'imbracatura e lei ci scivolo dentro ricadendo giù di schianto sul tetto. Ho poi saputo che morì dopo qualche giorno in ospedale.

Dopo tante ore di angoscia, l'acqua cominciò finalmente a scendere e fummo tutti devastati dalla gioia.
Poi vennero giorni di pale e sciantillì (stivali per gli italiani) in mezzo al puzzo di kerosene e carcasse di utilitarie.
Ho ancora viva l'immagine dei giardini di Bellariva pochi giorni dopo. Erano i nostri campini, ci giocavamo a calcio ogni giorno e fummo i primi ad andarci. Erano diventati una perfetta, lucida, uniforme distesa marrone. Un marroncino chiaro.

Quel giorno pensavamo di essere noi a lasciare le nostre impronte profonde nello spesso strato di fango, in realtà era quel fango che stava lasciando la sua profonda indelebile impronta dentro di noi.

13 commenti:

  1. Mi piace l'autenticità, l'assenza di retorica, la commozione sobria. Mi piace.

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  2. Bella la tua visione di quel dramma visto con gli occhi di un bambino..... io, che ancora non esistevo ho vissuto quel momento leggendo il tuo racconto.... e il tuo babbo che ti promette di salvarti portandosi a nuoto fino agli alti alberi di San Salvi mi ha fatto venire in mente "La vita è bella"... Bea

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  3. Grazie Stefano per aver condiviso questo ricordo ...

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  4. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  5. bel racconto, fresco e disincantato, proprio come può esserlo attraverso lo sguardo di un bambino!

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  6. Bello, mi ha commosso...anche se non mi è nuovo:)
    bravo babbo

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    1. Grazie Ila. Mi fa molto piacere il tuo commento. Bacione.

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