Poche
sere fa, un venerdì, siamo finite con un paio di amiche a
impelagarci in una discussione che ci ha dato un po’ di pena.
Eravamo
in tre, sedute all’ora dell’aperitivo, soddisfatte della nostra
autonomia, del nostro lavoro, libere.
Tre
donne avvezze ad approfittare con gusto di conquiste più che
trentennali, che consentono loro di entrare in un bar, chiacchierare,
puntare uno, alzarsi e andare a prenderselo se ne hanno voglia. Per
poi scomparire per sempre dalla sua vita il giorno dopo,
elegantemente disinteressate ad un legame a lungo termine. O magari,
senza scomparire, di farlo stare nella loro vita in un ruolo di
secondo piano perché prima vengono l’istruzione, il lavoro, le
amiche, il futuro da costruire a partire da se stesse e non
necessariamente da una coppia.
Lo
abbiamo fatto più volte, in modi diversi, con più o meno grazia. In
generale confesso che amo essere corteggiata, cercata, blandita. E
che insomma, se hai il mio numero, datti una mossa tesoro. In ogni
modo non mi sono mai negata nulla quando sono stata presa da
passione: ho spedito fiori, portato di nascosto girandole colorate
sulla porta di casa, scritto poesie turche sull’asfalto davanti
alle finestre. Mi sono divertita in spedizioni notturne e romantiche,
da complice o protagonista. Mi sono battuta e ho chiesto, voluto,
preso. Ho offerto il mio numero di telefono su un vassoio d’argento
o l’ho fatto sospirare per mesi. Ho atteso in ansia davanti alla
cornetta, ho chiamato io stessa, non mi son fatta sentire.
Ma
quel venerdì c’era qualcosa nell’aria. Riflessioni sul passato,
pensieri un po’ retrò e anche una conclusione impietosa, lasciata
cadere da una di noi a proposito di un fidanzato tanto ammodo ma
davvero poco coinvolgente: “I bravi ragazzi non durano” aveva
sospirato. Ci eravamo guardate ridendo, ma poi eravamo ammutolite.
Luogo comune o scomoda verità?
A
quel punto la macchina era in moto. E sbuffava, sbuffava, sbuffava:
ci usciva il fumo dalle orecchie, mentre i nostri sguardi diventavano
sempre più sospettosi.
Quante
volte ci eravamo trovate a non sapere come liberarci di qualcuno che
ci ostinavamo a ignorare e che per questo ancora di più ci correva
dietro? Quante volte ci eravamo un po’ fissate su un uomo solo
perché non potevamo averlo subito e il fascino del difficile ci
aveva tanto coinvolto per poi farci rimanere deluse appena lo avevamo
conosciuto meglio? E quante volte avevamo notato, magari
malignamente, le strategie di qualche ragazza, che teneva sul filo il
fidanzato di turno, mentre il tapino pendeva quasi sempre dalle sue
labbra?
Arrivata
a casa mi ero messa a frugare negli scaffali alti della libreria e,
nascosto in seconda fila, lo avevo trovato: un vecchio volumetto sui
toni del crema e del rosa, “Le Regole”. Me lo avevano regalato
per scherzo un paio di amiche, ad uno di quei meravigliosi compleanni
intorno ai 25: il librino della fine degli anni Novanta inanella
una trentina di “comandamenti” per trovare l’uomo della vita e
legarlo a sé per sempre. Un manualetto un po’ vintage, con
suggerimenti tipo “non telefonargli”, “concludi per prima
l’appuntamento”, “non andarci a letto subito” che sintetizza
i suoi insegnamenti in un prosaico “giocare duro per arrivare al
sodo”, ovvero più o meno al matrimonio. Ne avevamo riso di gusto,
giustamente (a mio avviso) convinte che sottrarsi in continuazione
per essere attraente sia atrocemente faticoso e anche un po’
deprimente e finisca per trasformare una storia che potrebbe essere
leggera e piena di potenzialità in un rapporto di forza quotidiano.
Eppure, signore mie, questa bibbia del tirarsela old fashioned aveva
riscosso un successo planetario.
Ma
poi, qual è il primo consiglio che viene da scambiarsi quando c’è
aria di crisi in una coppia? “Sparisci!”, “Non chiamarlo!”.
Gruppi di ragazze camminano in strada incitandosi a “non farsi
sentire” e incoraggiano le amiche dicendo “chiama me, piuttosto”.
E
quindi?
La
risposta, purtroppo, come direbbe un recente premio Nobel, è nel
vento: ci sarebbe addirittura una ricerca dell’Università della
Virginia, svolta attraverso i social network, a dimostrare che sì,
le persone a cui sappiamo di piacere ci attraggono, ma quanto queste
ci piacciono le persone che ci lasciano nell’incertezza sul
“gradimento” che provano nei nostri confronti. La chiave pare che
sia il cosiddetto “fascino dell’ignoto”, che spinge a pensare
continuamente ad un modo di decifrare i segnali provenienti
dall’altro, facendoci concentrare su di lui.
Allora
ecco il sospetto, il dubbio di una possibile, anacronistica resa al
vecchio adagio: sarà mica vero, sorelle, che in amor vince chi
fugge?
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