1966 un alluvione di ricordi
Dopo 50 anni i nostri ricordi sono stati già stati raccontati
a noi stessi numerose volte per questo entrano in una sfera mitica che li rende
però labili, volatili, scambiabili: si sovrappongono facilmente gli
avvenimenti, il dopo prende il posto del prima, la successione temporale è
sconnessa.
La nostalgia colora tutto di
una tinta dolce, anche il fango si tinge di colori pastello.
Il 5 Novembre sarei dovuto
entrare all’università, il mio primo anno di Architettura, quanto ho aspettato
quel momento. L’esame di maturità da
privatista al Liceo Artistico è andato molto bene contro ogni mia previsione,
ho studiato duro per un anno, ho anche disegnato tanto come non avevo mai
fatto, era il mio primo anno fiorentino pieno di aspettative e di promesse
mantenute.
Superato l’esame posso così
finalmente accedere alla Facoltà universitaria tanto desiderata , cosa che il mio
solo diploma di geometra, in quegli anni, non mi avrebbe permesso.
Ma il 4 Novembre la partenza per
Firenze è saltata, sono triste e deluso; le notizie, che si accavallano quella
mattina fanno passare la mia delusione
in secondo piano, aumentano la mia
tristezza che si fa sempre più cupa.: il 4 Novembre 1966 sarà sempre ricordato
come il giorno dell’alluvione di Firenze.
Nel corso della giornata le
notizie si fanno più precise e la dimensione della catastrofe si delinea in
tutta la sua devastante tragica grandezza.
Siamo incollati alla radio e
alla televisione e la città di Firenze mi appare sempre più drammaticamente
isolata e lontana, irraggiungibile .
Sono confinato nel mio paese
Castell’Azzara, alle pendici dell’Amiata, ogni giorno trascorso lontano da
Firenze mi pesa, stanno arrivando giovani volontari da tutto il mondo per
aiutare, per salvare la città.
In questo mio isolamento
disegno, dipingo, sperimento collages. In un anno trascorso a Firenze ho incontrato l’arte ‘moderna’ e
cerco di restituire tutte le scoperte gli incontri le suggestioni: Astrattismo,
Informale, Spazialismo,Neo Dada, Pop e Op Art, Poesia visiva, mi frullano nella
testa e sono una grande spinta operativa.
Finalmente dopo 10 giorni
sono anche io a Firenze in una pensione di via San Zanobi, li l’acqua non è
arrivata. C’è un amico, già studente di Architettura, a cui confido il
desiderio di andare a salvare le opere d’arte e i libri delle biblioteche, come
stanno facendo già tanti giovani venuti da tutto il mondo, ma lui mi convince
facilmente che nei quartieri alluvionati c’è più bisogno di aiuto, tra questi
il quartiere di Gavinana è tra i più colpiti, è lontano dal centro storico e
non riceve la dovuta attenzione dai mezzi di informazione.
Mi ritrovo alla scuola
elementare Giovanni Villani sul viale
Giannotti, località Bandino, li c’è il centro operativo che raccoglie e coordina
gli aiuti, mi ritrovo a spalare il fango in un seminterrato, mi dicono che il
pensionato che lo abitava è in ospedale, la moglie forse è morta e non ci sono
altri parenti.
Mi trovo insieme ad altri
volontari, sono studenti come me, sono molto bravi e determinati, scopro che un
paio sono iscritti alla mia stessa facoltà universitaria e saranno i miei futuri
compagni di corso, c’è uno studente di Medicina che ha le idee chiare su come
intervenire per togliere gli oggetti più rilevanti dal fango, io lo seguo
fiducioso e ammirato.
I miei piedi sono immersi per ore nell’acqua
fangosa , gli stivali di gomma che ho recuperato sono bassi e i
giornali arrotolati e infilati dentro non impediscono alla melma di entrare.
Nessun materiale impermeabile addosso, il maglione di lana già al secondo
giorno intriso di fango mi arriva alle ginocchia, quando torno in pensione lo
butto e me ne metto un altro.
Gli oggetti fangosi prelevati
dalle stanze vengono puliti sommariamente e accatastati nel cortile, in due
giorni il bilocale è stato svuotato e ripulito dal fango.
Poi ogni giorno si cambia
intervento, si va dove c’è maggior bisogno, il quartiere è devastato, la pena è
grande di fronte a tanta distruzione e a tanto dolore, ma poi la sera ci ritroviamo nella scuola, nonostante che siamo stanchi e sporchi si ride e una certa euforia ci prende insieme
al desiderio di ritrovarci il giorno dopo.
Dopo dieci giorni la mia
famiglia mi rivuole al paese : cosa fai a Firenze se l’università è chiusa? La
pensione costa.
Devo lasciare la città, il
quartiere di Gavinana, e i miei nuovi amici, ma so che li ritroverò.
Ho buttato via gli stivali
rotti, pantaloni e maglioni divenuti quasi delle sculture di creta, il fango è
già un ricordo su cui soffermarsi con la mente: rivedo le iridescenze che i combustibili mescolati alla melma
formano sulle superfici dove si è depositato e gli oggetti rimodellati da una
poltiglia unificante,sono estraniati dal loro uso proprio. Procedure che ci
ricordano molta arte contemporanea. Ripenso alle considerazione che si facevano
con i compagni mentre si lavorava sull’aspetto anche estetico del fango: un
terribile artista ma non privo di suggerimenti formali interessanti. Discorsi
fatti con ironia e leggerezza ma che ci aiutavano e riducevano il peso e la
fatica e creavano una condivisione di pensieri sull’arte .
Sono tornato a disegnare a
sperimentare segni e colori facendo tesoro di tutte le numerose suggestioni che
Firenze mi ha dato in un anno che si sta per concludere: l’anno dei miei
vent’anni. Continuo a cantare la mia gioia di vivere con i colori e con la voce
e canto insieme a Gianni Morandi “ C’è un grande prato verde dove nascono
speranze che si chiamano ragazzi, questo e il grande prato dell’amore” e ne
sono convinto..
(Carlo mi ha mandato questo suo testo scritto per il catalogo di "Da Cimabue in qua", la mostra su "L'Accademia e i professori del Disegno nell'alluvione del 1966" aperta, in Piazza San Marco, fino al 28 dicembre.
Gianni Caverni)
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