Ho avuto il primo
impatto con il disastro la mattina del 5 novembre dopo una giornata
di incertezza e di angoscia trascorsa con i genitori che erano
occupati ricoverare e ad aiutare gli amici. La mattina
precedente erano venuti a suonare alla nostra porta persone che
abitavano in via dei Bardi sul bordo del fiume. Lo sguardo angosciato
di chi fino all’ultimo aveva sperato di essere risparmiato
dall’ondata dell’Arno.
Il giorno della piena
dalla nostra terrazza di via Trieste si percepiva un senso di
innaturale sospensione, interrotta da rumori inquietanti e da una
colonna di fumo che si alzava dalle parti di viali dove era esploso
un serbatoio di nafta. Nessuno di noi, nonostante le telefonate,
poteva neanche immaginare la vastità e la profondità delle ferite
che l’Arno stava infliggendo alla città.
Quando andammo a
vedere come era ridotta la città, decisi anch’io, come tanti
ragazzi, che era necessario dare una mano. Non si poteva stare a
guardare, la città tutta aveva deciso che si doveva ripartire,
subito.
Così mi organizzai e,
insieme a un gruppo degli amici della Congregazione Mariana dei
Gesuiti, cominciammo ad andare a spalare il fango nei quartieri più
colpiti della città, che erano anche i più poveri.
Ci eravamo dati una
specie di orario di lavoro. Si partiva alle nove e si lavorava tutta
la mattina. Mi ricordo che un giorno incrociammo un gruppo di
militari olandesi che ci regalarono una tuta blu da lavoro che
indossavamo come una specie di uniforme della solidarietà. La zona
prescelta era il quartiere di San Niccolò, dove ci mettevamo a
disposizione degli anziani soprattutto per spalare il fango dai pian
terreno e dai sottosuoli, fossero cantine o vere e proprie
abitazioni.
Nel pomeriggio, quando
il sole cominciava a calare, andavo da solo alla Biblioteca Nazionale
dove mi aggiungevo agli altri studenti nella catena umana che
raccoglieva e ricoverava i libri infangati, facevo parte delle
squadre che inserivano fogli assorbenti per tenere divise le pagine
dei volumi più preziosi.
Ebbi anche
l’esperienza di trovarmi nel gruppetto delle persone,
soprintendente, consiglieri, musicisti, che andò a verificare i
danni sofferti dal Teatro comunale in Corso Italia. Ci affacciammo
dalla seconda galleria. La scena era davvero drammatica: la platea
era completamente sommersa da un lago fangoso sul quale galleggiavano
assi che si erano staccate dai palchi.
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