Nella tarda primavera del 1966 giunse
la comunicazione che mio padre, insegnante di Lettere, aveva ottenuto il
trasferimento dal liceo classico Carducci di Piombino al Galileo di Firenze. La
famiglia avrebbe dovuto trasferirsi al completo. Il mio mondo crollò: a
quindici anni appena compiuti si chiudevano le mie avventure calcistiche, finivano
le giornate sulle piste d’atletica e soprattutto svaniva il mio giovane amore
per una bimba che mi piaceva tanto. Non ricordo se ero più triste o incazzato.
Forse i due i sentimenti, convivendo, s’alternavano.
La scuola allora cominciava a ottobre;
e a metà settembre s’era già tutt’e quattro a Firenze. Quasi subito ne
sperimentai l’inospitalità. Dopo poco più d’un mese arrivarono le prime vacanze.
Il ponte di novembre: santi, morti e forze armate. Ponte dei morti, come a quei
tempi, appunto, si diceva.
In auto, ancora non ero arrivato a Piombino e già
vedevo il cielo mutare colore. Sparivano i colli e all’infinito l’orizzonte s’allungava.
Mentre s’appressava l’ora del ritorno a
Firenze, ecco la notizia dell’alluvione: babbo e mamma increduli e sgomenti per
quello che poteva essere successo ai nostri parenti fiorentini in una delle
villette a schiera di via Galliano; dove si sapeva per certo che l’acqua era
arrivata al primo piano e oltre, atterrando gli esigui muri divisori dei
piccoli giardini. Fu un telegramma di nostro cugino a ridare il sorriso ai
miei: “Tutto bene. Realizzato sogno barca a vela in salotto. Stop”.
Rammento il senso di colpa che mi
bruciava dentro come una guglia di ferro rovente: io ero l’unico a non essere
punto affranto.
Anzi.
Le informazioni che arrivavano sulla costa lasciavano
presagire che le scuole ci avrebbero messo parecchio a riaprire; sicché la mia
permanenza a Piombino si sarebbe per forza allungata. M’era impossibile
dispiacermene. Non lo davo a vedere per non dar l’idea del mostro, che di me m’ero
fatto io e che cresceva al cospetto delle immagini (trasmesse dalla
televisione) del disastro tremendo e dei giovani ch’erano corsi a lavorare
nella poltiglia motosa. Giravo lo sguardo per non vedere; e l’odore del mare
m’aiutava a non pensare. Odiai quegli ‘angeli del fango’, che tutte le sere
alle otto e mezzo m’entravano a casa in bianco e nero a rinfacciarmi la durezza
del cuore. Tutt’oggi il loro nome mi ferisce. Una piaga che brucia da
cinquant’anni, ma che accetto di buon grado per espiare.
onesto!!! Come sempre!!!
RispondiElimina