05/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Carlo Bertocci

1966  un alluvione di ricordi

Dopo 50 anni i nostri ricordi sono stati già stati raccontati a noi stessi numerose volte per questo entrano in una sfera mitica che li rende però labili, volatili, scambiabili: si sovrappongono facilmente gli avvenimenti, il dopo prende il posto del prima, la successione temporale è sconnessa.
La nostalgia colora tutto di una tinta dolce, anche il fango si tinge di colori pastello.
Il 5 Novembre sarei dovuto entrare all’università, il mio primo anno di Architettura, quanto ho aspettato quel momento. L’esame di maturità  da privatista al Liceo Artistico è andato molto bene contro ogni mia previsione, ho studiato duro per un anno, ho anche disegnato tanto come non avevo mai fatto, era il mio primo anno fiorentino pieno di aspettative e di promesse mantenute.
Superato l’esame posso così finalmente accedere alla Facoltà universitaria tanto desiderata , cosa che il mio solo diploma di geometra, in quegli anni, non mi avrebbe permesso.
Ma il 4 Novembre la partenza per Firenze è saltata, sono triste e deluso;  le notizie, che si accavallano quella mattina  fanno passare la mia delusione in secondo piano, aumentano la mia tristezza che si fa sempre più cupa.: il 4 Novembre 1966 sarà sempre ricordato come il giorno dell’alluvione di Firenze.
Nel corso della giornata le notizie si fanno più precise e la dimensione della catastrofe si delinea in tutta la sua devastante tragica grandezza.
Siamo incollati alla radio e alla televisione e la città di Firenze mi appare sempre più drammaticamente isolata e lontana, irraggiungibile .
Sono confinato nel mio paese Castell’Azzara, alle pendici dell’Amiata, ogni giorno trascorso lontano da Firenze mi pesa, stanno arrivando giovani volontari da tutto il mondo per aiutare, per salvare la città.
In questo mio isolamento disegno, dipingo, sperimento collages. In un anno trascorso  a Firenze ho incontrato l’arte ‘moderna’ e cerco di restituire tutte le scoperte gli incontri le suggestioni: Astrattismo, Informale, Spazialismo,Neo Dada, Pop e Op Art, Poesia visiva, mi frullano nella testa e sono una grande spinta operativa.
Finalmente dopo 10 giorni sono anche io a Firenze in una pensione di via San Zanobi, li l’acqua non è arrivata. C’è un amico, già studente di Architettura, a cui confido il desiderio di andare a salvare le opere d’arte e i libri delle biblioteche, come stanno facendo già tanti giovani venuti da tutto il mondo, ma lui mi convince facilmente che nei quartieri alluvionati c’è più bisogno di aiuto, tra questi il quartiere di Gavinana è tra i più colpiti, è lontano dal centro storico e non riceve la dovuta attenzione dai mezzi di informazione.
Mi ritrovo alla scuola elementare Giovanni Villani  sul viale Giannotti, località Bandino, li c’è il centro operativo che raccoglie e coordina gli aiuti, mi ritrovo a spalare il fango in un seminterrato, mi dicono che il pensionato che lo abitava è in ospedale, la moglie forse è morta e non ci sono altri parenti.
Mi trovo insieme ad altri volontari, sono studenti come me, sono molto bravi e determinati, scopro che un paio sono iscritti alla mia stessa facoltà universitaria e saranno i miei futuri compagni di corso, c’è uno studente di Medicina che ha le idee chiare su come intervenire per togliere gli oggetti più rilevanti dal fango, io lo seguo fiducioso e ammirato.
I miei piedi sono immersi per ore nell’acqua fangosa , gli stivali di gomma che ho recuperato sono bassi  e  i giornali arrotolati e infilati dentro non impediscono alla melma di entrare. Nessun materiale impermeabile addosso, il maglione di lana già al secondo giorno intriso di fango mi arriva alle ginocchia, quando torno in pensione lo butto e me ne metto un altro.
Gli oggetti fangosi prelevati dalle stanze vengono puliti sommariamente e accatastati nel cortile, in due giorni il bilocale è stato svuotato e ripulito dal fango.
Poi ogni giorno si cambia intervento, si va dove c’è maggior bisogno, il quartiere è devastato, la pena è grande di fronte a tanta distruzione e a tanto dolore, ma poi la sera ci  ritroviamo nella scuola, nonostante  che siamo stanchi e sporchi  si ride e una certa euforia ci prende insieme al desiderio di ritrovarci il giorno dopo.
Dopo dieci giorni la mia famiglia mi rivuole al paese : cosa fai a Firenze se l’università è chiusa? La pensione costa.
Devo lasciare la città, il quartiere di Gavinana, e i miei nuovi amici, ma so che li ritroverò.
Ho buttato via gli stivali rotti, pantaloni e maglioni divenuti quasi delle sculture di creta, il fango è già un ricordo su cui soffermarsi con la mente: rivedo le iridescenze  che i combustibili mescolati alla melma formano sulle superfici dove si è depositato e gli oggetti rimodellati da una poltiglia unificante,sono estraniati dal loro uso proprio. Procedure che ci ricordano molta arte contemporanea. Ripenso alle considerazione che si facevano con i compagni mentre si lavorava sull’aspetto anche estetico del fango: un terribile artista ma non privo di suggerimenti formali interessanti. Discorsi fatti con ironia e leggerezza ma che ci aiutavano e riducevano il peso e la fatica e creavano una condivisione di pensieri sull’arte .

Sono tornato a disegnare a sperimentare segni e colori facendo tesoro di tutte le numerose suggestioni che Firenze mi ha dato in un anno che si sta per concludere: l’anno dei miei vent’anni. Continuo a cantare la mia gioia di vivere con i colori e con la voce e canto insieme a Gianni Morandi “ C’è un grande prato verde dove nascono speranze che si chiamano ragazzi, questo e il grande prato dell’amore” e ne sono convinto..

(Carlo mi ha mandato questo suo testo scritto per il catalogo di "Da Cimabue in qua", la mostra su "L'Accademia e i professori del Disegno nell'alluvione del 1966" aperta, in Piazza San Marco, fino al 28 dicembre.
Gianni Caverni)

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