07/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Antonio Natali

Nella tarda primavera del 1966 giunse la comunicazione che mio padre, insegnante di Lettere, aveva ottenuto il trasferimento dal liceo classico Carducci di Piombino al Galileo di Firenze. La famiglia avrebbe dovuto trasferirsi al completo. Il mio mondo crollò: a quindici anni appena compiuti si chiudevano le mie avventure calcistiche, finivano le giornate sulle piste d’atletica e soprattutto svaniva il mio giovane amore per una bimba che mi piaceva tanto. Non ricordo se ero più triste o incazzato. Forse i due i sentimenti, convivendo, s’alternavano.
La scuola allora cominciava a ottobre; e a metà settembre s’era già tutt’e quattro a Firenze. Quasi subito ne sperimentai l’inospitalità. Dopo poco più d’un mese arrivarono le prime vacanze. Il ponte di novembre: santi, morti e forze armate. Ponte dei morti, come a quei tempi, appunto, si diceva. 
In auto, ancora non ero arrivato a Piombino e già vedevo il cielo mutare colore. Sparivano i colli e all’infinito l’orizzonte s’allungava.
Mentre s’appressava l’ora del ritorno a Firenze, ecco la notizia dell’alluvione: babbo e mamma increduli e sgomenti per quello che poteva essere successo ai nostri parenti fiorentini in una delle villette a schiera di via Galliano; dove si sapeva per certo che l’acqua era arrivata al primo piano e oltre, atterrando gli esigui muri divisori dei piccoli giardini. Fu un telegramma di nostro cugino a ridare il sorriso ai miei: “Tutto bene. Realizzato sogno barca a vela in salotto. Stop”.

Rammento il senso di colpa che mi bruciava dentro come una guglia di ferro rovente: io ero l’unico a non essere punto affranto. 
Anzi. 
Le informazioni che arrivavano sulla costa lasciavano presagire che le scuole ci avrebbero messo parecchio a riaprire; sicché la mia permanenza a Piombino si sarebbe per forza allungata. M’era impossibile dispiacermene. Non lo davo a vedere per non dar l’idea del mostro, che di me m’ero fatto io e che cresceva al cospetto delle immagini (trasmesse dalla televisione) del disastro tremendo e dei giovani ch’erano corsi a lavorare nella poltiglia motosa. Giravo lo sguardo per non vedere; e l’odore del mare m’aiutava a non pensare. Odiai quegli ‘angeli del fango’, che tutte le sere alle otto e mezzo m’entravano a casa in bianco e nero a rinfacciarmi la durezza del cuore. Tutt’oggi il loro nome mi ferisce. Una piaga che brucia da cinquant’anni, ma che accetto di buon grado per espiare.   

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