29/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Paolo De Simonis

Celestina, barite e marcassite mi attendevano attorno a una vecchia miniera senese: ferveva allora mia profonda passione, durata almeno due mesi, per il collezionismo mineralogico. Alla meta avrebbe dovuto portarmi, assieme a due amici, una Bianchina familiare che all’alba del 4 novembre parte da piazza S. Simone, traversa un Arno inquietante sul ponte San Niccolò e si ferma subito dopo, per colazione, in un bar di piazza Ferrucci. Al nostro giovanile timor di esondazione l’attempato gestore dell’esercizio oppone la forza serena dell’esperienza: “Si vede che non l’avete visto nel ’49. Tutti a pigolare, un monte di discorsi, e poi non successe nulla”.
Fidanti, ripartiamo imboccando il viale dei Colli ma poco oltre un filtro, più che blocco, di carabinieri: “Dove andate ?”. “Sotto Siena”.  “Meglio di no”. Brutte notizie, pare, per l’Elsa e per l’Ombrone.
Ubbidiamo, da catto-(non ancora)comunisti, e per tornare al sicuro a casa ripassiamo il fiume che nel frattempo sta smentendo il barista: l’acqua comincia a invadere le strade e il panico a diffondersi. Il Quartiere, mio e non solo di Pratolini, ormai non è più raggiungibile.
All’assenza di protezione civile supplisce quella parentale: cugini quasi di campagna che abitano  sopra Fiesole e ci accolgono meravigliati perché ancora ignari dell’evento. A informare il cólto e l’inclita, del resto, tardarono non poco, notoriamente, anche i media del tempo. Più vivace il passaparola rapidamente generatore (anche) di leggende strapaesane tra cui quella del crollo del Ponte Vecchio: alla smentita ufficiale, finalmente appresa via etere, segue corale sollievo, perfino punteggiato da qualche luccicone e un po’ di tosse.
Spadaro viene però a breve sorpassato da Bella ciao: per me lato A di un 45 giri di Ivo Livi ‘Montand’ (sul lato B, senza malizia: Amor dammi quel fazzolettino) mentre per i cugini è titolo di uno spettacolo andato in scena due anni prima a Spoleto, nel Festival dei Due Mondi, e da loro posseduto su LP che nel pomeriggio viene fatto girare sul piatto del grammofono. 
La puntina che ara quel vinile mi spiazza come mai prima era accaduto e come raramente avrei provato in seguito.
Per oppormi al volo della colomba bianca della Pizzi mi ero fino ad allora esclusivamente affidato al soffitto viola di Paoli o alla via Broletto di Endrigo. Mentre il gusto di sentirmi dalla parte degli oppressi mi derivava dal solo pensare/guardare la loro condizione miserabile. Li vedevo, appunto, ma non li avevo mai sentiti. “Dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce”, Franco Fortini dixit.
Ora, in format falsamente fedele, ne ascoltavo invece parole e musiche che mi donavano un’altra possibilità di distinguermi prendendo distanza da Sanremo.
Plaudendo l’orgoglio della protesta finalmente a testa alta, certo: con “la libertà [che] non viene, perché non c’è l’unione”.  Ma ancor più, oggi almeno lo posso dire, fu per me punctum la profondità atemporale, così la sentivo, di tante dolenze, dolci e rassegnate. “Ce l’hanno fatto tanto stretto il nodo/che non si scioglierà né te né io”. “Addije, addije ammori,/casch’e se coje/la live e casch’a l’albere le foje”. Sensazioni che non sapevo come e dove collocare, tanto da dovermi appigliare al vecchio Giusti impostomi a suo lontano tempo dalla maestra: “sentìa nel petto la dolcezza amara/de' canti uditi da fanciullo; il core/che da voce domestica gl'impara,/ ce li ripete i giorni del dolore”.
Evvabbè.
Intanto, mentre sopra Fiesole ascoltavo la Bueno, molte altre canzoni da lei raccolte in Toscana su nastro magnetico annegavano a casa sua, limitrofa a piazza Santa Croce e sommersa dall’Arno d’argento. Casa mia è poco lontana, in via S. Pier Maggiore 2 (per saperne di più), e ci torno letteralmente day after, per cronologia e atmosfera: un 23, inteso come autobus, è adagiato in piazza San Firenze sulle scale del Tribunale barocco assieme a grandi tronchi d’albero, gabbie di conigli e damigiane spezzate. Come in ogni evento drammatico, gli sguardi si macchiano di voyeurismo estetizzante e fioriscono le false notizie, quasi sempre intrise di rancore contro ‘lorsignori’. Nel sottopassaggio della stazione “non si sa mica quanti morti ci sia stato: è perché non lo voglian dire”.
Senza luce, con acqua e pane, distribuiti da camion militari: vivo per qualche giorno quanto avevo sentito narrare dai miei genitori che stanno appunto rivivendo il loro tempo di guerra. Non mancano forme di accaparramento indebito, mercato nero incluso. Al Canto alle Rondini un capopopolo, tra Masaniello e Stenterello, lancia inascoltato l’invito al saccheggio: “Tutti alla Standa !”, supermarket alimentare che ha da poco occupato lo spazio dello storico Cinema Garibaldi.
Le retorica mi assume a tempo determinato: al terzo giorno risuscito come angelo del fango, facilmente riconoscibile per gli attributi canonici costituti da tuta blu operaia e stivali di gomma. Prima presso il signor Alberto, nostro pizzicagnolo che, come Calandrino tra i sassi del Mugnone sparsi per casa, si muoveva sconfortato tra le sue scatolette dal contenuto ormai desemantizzato per completo dissolvimento delle etichette.
Poi nella chiesa di San Remigio, con vari altri cherubini spalando e canticchiando. Orgoglioso di averla appresa da poco, e abbastanza convinto di épater les bourgeois, accenno a Gorizia tu sei maledetta: purtroppo subito sconfessato da un citoyen che mi si aggrega nel cantarla rivelandosi fratello di Giovanna Marini, una delle protagoniste dello spettacolo di Bella ciao. Decenni dopo saprò che già allora era un gesuita, divenuto in seguito parroco ai Parioli e conclusivamente prete di strada a Scampia.
Infine, e inevitabilmente, entro in Biblioteca Nazionale senza riempire la scheda d’ingresso. L’Arno ha liberalizzato fino all’anarchia le modalità di accesso ai volumi: non più centellinati e attesi con trepidazione ma passati di mano in mano in clima di solidale cameratismo giovanile e speranza di salvezza. Molti non la troveranno e, per decenni, di loro resterà memoria nella sentenza manoscritta dagli impiegati sulla scheda di richiesta: “alluvionato”.
‘Angelo’, ovviamente, sono diventato dopo. Allora non sapevo di esserlo: neppure lessicalmente. Collaboravo con scarsa consapevolezza alla costruzione di una memoria destinata a divenir importante: perché non è da tutti vivere sapendo dar senso e peso adeguato a quel che si fa. I più, quorum ego, devono rassegnarsi a capirlo ‘dopo’, favoriti da reducismi e celebrazioni. Mi è successo così anche per ‘il ‘68’, figuriamoci.
Non so cosa capisse, concludendo, il trippaio e pittore naïf che il 5 novembre in via San Pier Maggiore, mentre ripuliva il suo carretto con foto di Hamrin ritagliata da “La Nazione”, commentò la situazione riciclando a voce spiegata, sulla linea melodica dell’ottava rima,  un vecchio denso endecasillabo: “Firenze l’è una grande meravi-iglia”.




26/11/16

IO DANIEL BLAKE di Omero Sala

Ken Loach ci racconta per l’ennesima volta una storia già sentita.  L’ottantenne regista inglese, carico più che mai di quell’impegno civile che conosciamo, torna prevedibile a insistere nelle sue denunce sociali.

Ma qui, in questo ultimo film, incontriamo un insolito Loach nel quale la solidarietà per gli emarginati si esprime con traboccante pietà e la deplorazione per la politica classista e per la burocrazia ottusa (quella che sgretola l’individuo invece di essergli utile) è intrisa di un pessimismo amaro che sconfina nella disperazione.Cerchiamo di capire la ragione di questa nuova “deriva” emotiva.
La trama del film è semplice.Daniel Blake (Dave Johns), carpentiere sessantenne di Newcastle, ha avuto un infarto. I medici gli vietano di lavorare. Avendone diritto, chiede l’indennità di malattia o il sussidio di disoccupazione. Ma per ottenerlo deve spedire telematicamente la domanda (compilando on line una serie infinita di moduli) e poi sottoporsi a colloqui, test, attese negli uffici di collocamento. Si scontra col muro molle della burocrazia fatto di pratiche, code, procedure, rinvii, incomprensioni, assurdità kafkiane (deve, per esempio, dimostrare di essere in cerca di un lavoro, perché se non lo cerca incappa in sanzioni severissime; ma se lo cerca e lo ottiene deve rifiutarlo per motivi di salute …).Nella sua guerra contro le istituzioni (la cui ottusità è ben resa dall’insensibilità dei travet che incontra e dall’impermeabilità dei call center) conosce casualmente un’altra emarginata: la giovane Katie (Hayley Squires), disoccupata con due figli da crescere. 

I servizi sociali l’hanno allontanata da Londra chiudendo l’ostello in cui era accolta e l’hanno trapiantata a Newcastle assegnandole un alloggio squinternato e un modesto sussidio che non basta per sistemare l’appartamento, rifornirsi del necessario e mantenere i figli. Daniel, avendo tempo (ed empatia), si prende cura di lei (fa piccole riparazioni, tiene i bambini per consentirle di cercare lavoro, …); e lo fa senza secondi fini, spinto dalla propensione alla solidarietà che a lui viene negata.
Loach racconta lucidamente, senza troppe spiegazioni (del resto inutili), il muoversi impotente dei due personaggi nel loro istintivo bisogno di non rassegnarsi, di difendere la propria dignità, di districarsi, di aiutarsi, di raccontarsi, di vivere.Alcuni passaggi, freddi e asettici, sono talmente gravidi di senso da sbalordire: vedi i dialoghi sui titoli di testa, senza il supporto delle immagini, con voci fuori campo; o le scene amorfe accompagnate dal sottofondo esasperante della musichetta di attesa del call center (un Vivaldi insopportabile nella sua allegra cinica indifferenza) che Daniel è costretto a sopportare per non perdere la priorità (la priorità) acquisita.Ma dai fatti, dalla cronaca asciutta, come dicevamo, trasuda potente la commozione.La narrazione è infatti puntellata da sequenze ricorrenti che attanagliano la gola e riempiono il buio della sala di una commozione quasi solida: vedi l’episodio in cui Katie, sfinita dalla fame, apre di nascosto una lattina che le hanno appena regalato alla banca del cibo e divora sui due piedi i fagioli, sbrodolandosi tutta e poi – ecco – piange per la vergogna; o la scena in cui la sua bambina bussa alla porta di Daniel (che in un momento di sconforto sta per cedere e non vuole aprire) e insiste, lo chiama, lo sbircia attraverso la fessura della posta, gli parla, lo convince ad aprirle (Tu hai aiutato noi: perché io non posso aiutare te?) e poi – ecco – lo abbraccia in silenzio; 

o quella desolante in cui Daniel scova Katie in una “casa chiusa”; o quella conclusiva in cui la donna legge il promemoria che Daniel si era preparato per la commissione ricorsi.
Questi climax che lasciano il segno caratterizzano, più che una nuova poetica, una nuova straordinaria visione politica del vecchio regista inglese, incazzato e trascinante come sempre ma struggente, efficace nel muovere qualcosa dentro, nel cuore oltre che nella testa.L’attacco al welfare è sempre lucido. La denuncia della deriva che sta prendendo la “civiltà” occidentale è sempre feroce, ma viene ora condita con una dose inconsueta di pietas: e questo avviene non per furbizia autoriale, ricatto emotivo, artificio retorico; e nemmeno a causa di un ripiegamento sentimentale dovuto a stanchezze senili. 

Siamo di fronte ad una nuova fredda visione del mondo intrisa di opaco pessimismo. L’estremo appello del vecchio regista – forse un po’ disilluso, forse consapevole della deriva inarrestabile e dall’inefficacia della lotta di tutta una vita – è un urlo soffocato.Il combattivo Loach non è diventato uno strappalacrime: indica ancora il nemico da combattere (che nel film è la disumanizzazione dei sistemi di protezione sociale, ma nella società è il neoliberismo ormai trionfante, l’abdicazione dello stato sociale a favore della società dei consumi, la negazione dei diritti fondamentali, la collocazione in secondo piano del cittadino, dell’uomo, del singolo individuo, …), ma si accorge che la solidarietà si è frantumata, si sono intorpidite le organizzazioni sindacali, è evaporato il partito dei lavoratori, è finita la lotta di classe. E il proletariato non marcia, ma si mette in coda agli sportelli del centro di assistenza o davanti al banco alimentare.Non si può combattere contro un nemico inafferrabile e invisibile, contro un nemico che non ti guarda negli occhi, contro una forza che ha alterato subdolamente la società e ha trasformato gli uomini in anime aliene, come ne L’invasione degli ultracorpi.Davanti a questa mutazione non resta che la resa e la compassione reciproca fra le vittime.E infatti, nel film, l’unico soccorso alla ragazza madre abbandonata dai servizi sociali giunge da un invalido disoccupato; l’unica persona che porta aiuto al povero Daniel (con offerta di conforto, non di soccorso) è una bambina di colore che conserva negli occhi la residua compassione del mondo. E gli altri rari (e inefficaci) segni di vicinanza o solidarietà vengono da un vicino di casa di Daniel (di colore) che vive di espedienti, da una dimessa impiegata del Centro (subito redarguita dal capo), da una compassionevole volontaria dell’organizzazione no-profit, …
Il perentorio “Io, Daniel Blake” del titolo, più che affermazione orgogliosa della identità (e quindi della dignità) del protagonista contro la sopraffazione, appare un epitaffio.


24/11/16

L'ORA DI UCCIDERE di Miss Holmes

Sarà che in questi giorni devo spostare scatoloni, mobili e un sacco di altra roba pesante, fisicamente e psicologicamente, ma mi è venuto da pensare che gli uomini che si appoggiano non mi piacciono per niente. Per tutta la vita o per cinque minuti, non se ne può più.

Non è questione di solidarietà di coppia, di reciproche confidenze, di normali richieste di aiuto: parlo di quegli uomini che vi trattano come il bancone del bar, superficie gradevole e lucida, ragionevolmente sicura e in posizione adeguata per puntare il gomito e far mostra di sé. O come una mongolfiera a cui appendersi per sollevarsi quando si sentono giù. Quale siano le motivazioni, dall’arroganza all’insicurezza cronica, non interessa: non si reggono.

Ed è bene stare in guardia perché nel terzo millennio, mi suggeriscono molte compagne di avventura, l’uomo zavorra sembra essere in agguato ovunque.

Non ditemi che non avete mai incontrato quello che parla solo di sé: il suo ego, le sue imprese, le sue meravigliose doti (professionali, amatorie, personali) sono il suo argomento preferito, mentre voi siete lo specchio (perfetto per carità!) in cui pavoneggiarsi sfoggiando successi lavorativi, risultati in palestra, nei casi peggiori conti in banca o auto nuove. Domande sui vostri interessi, la vostra vita, i vostri impegni? Non pervenute. E se provate ad esprimere la vostra opinione su qualcosa, ecco che vi dà sulla voce, perché su quell’argomento ne sa senz’altro più di voi. DA DIMENTICARE.

Poi c’è quello che invece vi osserva anche troppo. E indaga: come vi vestite, quello che (o anche se) cucinate, cosa leggete. Poi approva. “Mi piace” dice, come se conquistare il suo consenso fosse l’unica ragione per cui voi, piccole e sventate femmine umane, avete fatto quelle scelte o vi siete comportate in quel modo. Mentre lo guardate confuse, lui approfitta dell’attimo di disorientamento per accomodarsi nella vostra cucina, per godere della vostra “bella presenza”, per sfoggiare la vostra cultura. Come se foste già di sua competenza, anche se nel frattempo al massimo avete preso un caffè insieme o fatto una passeggiata e di lui non ne volete sapere. Serve prontezza di riflessi per darsi alla macchia rapidamente, la cortesia è un optional, se riuscite a mantenerla bene, altrimenti pace. FALLIMENTARE.

Il tipo più subdolo è però quello che per tirarsela finge di essere un allergico-alle-relazioni, quando in realtà l’unica cosa che desidera (per motivi vari di cui potrebbe anche non essere consapevole ma non dimenticate mai che il problema è SUO, NON VOSTRO) è trascinarvi nel gorgo del rapporto stabile, nell’infilata letale cena-divano-film, cui seguirà inesorabilmente l’ufficializzazione con i parenti e un sfilza di gastime ogni volta che dovrete decidere cosa fare la domenica a pranzo. E se voi non volete tutto questo bendidio perché semplicemente vi state attenendo a quanto lui aveva fatto trapelare all’inizio, ecco, siete cattive e ingrate. Per carità, se il vostro obiettivo è una relazione a lungo termine potete tenerlo: magari verificate la vostra compatibilità con un uomo che prima fa intendere una cosa e poi si comporta nel modo esattamente opposto. Se invece non volete fare progetti per più di una settimana, scappate: c’è più di un buon motivo. NEGATIVO.

Questi sono solo alcuni degli esempi che mi vengono in mente, sperimentati o raccontati da donne che ancora non si capacitano di come un certo tipo di maschio si sia infilato in casa loro per rimanerci, ben appoggiato, mesi o anni addirittura. C’è chi per sfrattare l’ospite indesiderato ha dovuto cambiare la serratura, nonostante i ripetuti inviti ad andarsene: troppa civiltà non paga, a volte servono le maniere forti, ahinoi.

Perché pesano questi uomini, rallentano. Mentre mi pare che sempre meno donne abbiamo voglia di accollarsi un uomo, di prendersene cura, almeno se il maschio in questione non è in grado di ricambiare alla pari la cura appunto, insieme all’attenzione, allo spirito di squadra nell’affrontare la vita insieme.
Bisogna però anche essere oneste.
E riconoscere che l’uomo zavorra, l’uomo che si appoggia inerte, può rappresentare un’occasione importante per tutte noi.

Quella di compiere un piccolo, metaforico, proficuo delitto.
Bando a stereotipi e polverosi sensi di colpa, sarà finalmente arrivata l’ora di uccidere la crocerossina che è in noi?


LA MIA ALLUVIONE di Renato Focili

All'epoca non vivevo a Firenze ma risiedevo a Chianciano Terme. Forse potrei raccontarti solo di strani casi della vita, forse di sindrome del sopravvissuto, dell'angoscia per le pene altrui e di occasioni mancate.
In breve ho evitato l'alluvione solo per la circostanza della data, sarei dovuto venire a Firenze, insieme ad altri amici, il 5 od il 6 e soggiornare per qualche giorno in una pensione in via Faenza. La mattina, ancora in pigiama, sentii le prime frammentarie notizie alla radio e posticipai la partenza. Cercai di mettermi in contatto col gestore della pensione ma fu inutile e seppi poi che erano rimasti isolati per giorni per l'altezza dell'acqua.
La preoccupazione in famiglia aumentò moltissimo perché fummo informati che diversi parenti erano rimasti alluvionati a Grosseto e nei giorni successivi i nostri intenti furono volti a portar loro conforto. Raggiungerli fu un'odissea per il dissesto ed i crolli delle strade della Maremma.
Quando potei infine raggiungere Firenze la situazione era in qualche modo stabilizzata, c'era ancora molto fango e le cantine ancora allagate. Fu comunque un trauma ed una pena essere a contatto con un dramma di tali dimensioni. Pressato inoltre dai miei impegni e dalla mancanza di rapporti di amicizia o conoscenza di persone residenti persi qualsiasi opportunità di rendermi utile in qualche modo.

22/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Alessandro Lazzeri

Un’immagine piacevole, un ricordo personale e nostalgico può emergere nella memoria dei giorni drammatici dell'alluvione. Nel pomeriggio del 3 novembre vagabondavo nonostante il cattivo tempo nelle vie del centro quando incontrai in piazza San Firenze due ragazze che cercavano un'indicazione stradale su “Europe on five dollars a day” che era un po' la Bibbia del viaggiatore americano di quegli anni. Mi feci coraggio e chiesi se le potevo aiutare. Grate mi sorrisero ed io trovai il coraggio, con il mio inglese da studente ginnasiale, di intraprendere una conversazione che riuscì in qualche modo a interessarle. Si chiamavano Jane e Rachel, avevano i miei sedici anni ed erano a Firenze, nell'ambito in un viaggio in Europa, organizzato dal loro liceo. Mi offrii di accompagnarle e dopo un lungo giro e un conversare piacevole, giungemmo alla loro pensione, in via Nazionale. Prima che sparissero all'interno della pensione Etrusca, chiesi se potevamo vederci il giorno successivo. Promisi di condurle a Boboli e di invitare anche un mio compagno di scuola. Sorrisero e fissammo per il giorno dopo. Rachel mi parve particolarmente interessata ed io amai subito il suo sorriso, i suoi occhi blu, i suoi capelli biondi.
A casa nel dopo cena ascoltai “Revolver” dei Beatles, che mio padre mi aveva portato da Londra, sognando l'incontro dell'indomani con la bella americana. Improvvisamente la musica s'interruppe. Era saltata la corrente. Il buio assoluto aveva avvolto la casa, mentre all'esterno la strada pareva trasformarsi in un torrente. Non lo sapevo ma era l'inizio dell'alluvione.
Il giorno dopo mancai l'appuntamento. Nei giorni successivi mentre in bicicletta percorrevo le strade di Firenze, tra fango e detriti, per andare a trovare parenti e amici, ho coltivato la speranza d'incontrare Rachel, mi sono illuso di trovarla tra i molti giovani che da ogni parte del mondo era venuti ad aiutare la nostra città.

LA MIA ALLUVIONE di Luigi Cantarelli

Quella sera di festa, mentre uscivo dal Nuovo Odeon con ancora negli occhi la Rossana Podestà dei 'Sette uomini d'oro', mi trovai dentro una bufera di vento e pioggia che si era appena scatenata su Messina, tanto forte da inzupparmi la divisa grigioverde, nel tratto a piedi verso la caserma del CAR.
In caserma, sulla branda, dalla mia radiolina sentivo arrivare notizie drammatiche da Firenze, città a me cara che avevo avuto modo di visitare l'anno prima. Tra le cattive ce n'era una che mi riguardava direttamente: la linea ferroviaria era interrotta nel Valdarno; due giorni dopo, la mia prima licenza, avrei dovuto prendere il treno per tornare a Brescia, dove allora abitavo, per dare un esame.
A Roma Termini, dopo il ripristino della ferrovia, riuscii a prendere uno dei primi treni per Firenze.
Dopo Montevarchi il treno iniziò a rallentare: si vedevano i primi allagamenti che già iniziavano a ritirarsi, i campi arati da poco che risalivano verso il Pratomagno, lassù ancora minaccioso. Si andava a passo d'uomo sul ponte a Incisa, riemerso dopo la piena. Poi Pontassieve, le Sieci, disastro, Compiobbi, disastro, il letto fangoso dell'Arno che si era
allargato a tutta la campagna circostante, il Girone, disastro; stavo in piedi nel corridoio, con il finestrino giù e i gomiti sopra, a sentire l'odore dell'Arno; poi Rovezzano, lo stabilimento FILA, le matite, Campo di Marte e infine la stazione di Santa Maria Novella, ancora in piena
emergenza...e poi, con sconforto, via verso la caligine padana.

21/11/16

LA MIA ALLUVIONE di Massimo Chiacchio


In piazza del Duomo, di fianco alla farmacia in angolo con Borgo San Lorenzo, c’era un piccolo  negozio che faceva, fino a notte inoltrata, piccoli panini farciti molto gustosi, luogo abbastanza raro per l’epoca. La notte del 3 novembre ’66, verso le 1,30, ero là con due amici e mentre gustavamo l’ambito panino guardavamo stupiti  il Battistero circondato alla base da un carosello di acqua piovana.
La mattina dopo, giorno di festa a scuola, mi attardavo pigramente a letto quando un mio amico venne a casa mia, in via Jacopo Nardi,  e, invitandomi ad alzarmi, mi disse: “vieni a vedere l’Arno in Viale Mazzini”; ovviamente pensai a una bufala, ma mi affrettai a seguirlo incuriosito…
Il resto è noto.
Con alcuni amici ci organizzammo e decidemmo di dare aiuto alle persone in difficoltà nel centro di Firenze, senza alcuna priorità, alla Biblioteca Nazionale c’era anche troppo affollamento, del resto anche in altre città già stavano organizzando, per i fine settimana, aiuti alla biblioteca con il tour “angeli del fango” (eravamo, inutilmente, già polemici…).
Ma, come dicevo, il resto è noto.
Ricordo con piacere quando la sera, spogliati dei vestiti fangosi, ripuliti alla meglio, senza acqua e luce, ci ritrovavamo con amiche e amici, alla luce di una candela, per raccontarci la giornata passata godendoci il fumo di una rara e benedetta nazionale semplice.
Quando capita di parlare di quell’evento dico spesso che lo ricordo come uno dei periodi più belli della mia vita, certo avevo 19 anni e c’era ancora tanto futuro, ma del sentimento solidale e diffuso che ho provato in quel periodo non ne ho più avuta la sensazione. Inoltre, forse per reazione al disastro che giornalmente si mostrava ai nostri occhi, si manifestò una certa disponibilità ad uno scambio di amorosi sensi… via, eravamo angeli, ma molto laici!
Come ricordo tangibile dell’alluvione mi è rimasto il disco “The Beach Boys – introduce Barbara Ann”: presso un “dancing” in località Scopeti di Fiesole fu organizzato uno spettacolo per la raccolta di fondi pro alluvionati e all’interno della manifestazione, sulla scorta di un programma radiofonico allora in auge, fu confezionata la competizione canora “bandiera gialla” con in palio il disco summenzionato; tra i pochi partecipanti Riccardo Marasco (non ancora menestrello toscano), che eseguì splendide canzoni ottocentesche napoletane , e io con le mie prime canzoni autoriali. Vinsi io, immeritatamente e probabilmente perché giocavo in casa…