DietrooooFront! Certamente l'idea bellissima di Giovanna Giusti non ha bisogno della bruta secchezza dell'ordine impartito a squarciagola da un tenente qualsiasi. E praticamente senza il minimo dubbio nella tredicesima edizione di I mai visti, l'esposizione voluta da Gli amici degli Uffizi che ogni anno per le feste natalizie propongono opere d'arte meno conosciute provenienti dalla riserva della Galleria, almeno metà delle opere in mostra sono davvero mai viste.
Il lato nascosto delle collezioni è il sottotitolo della mostra che, nella sala delle Reali Poste fino al 2 febbraio, offre l'inconsueta vista anche dell'altra parte di un quadro: se insomma i tagli di Fontana suggerivano l'imperativo moderno di andare oltre la superficie delle cose Giovanna Giusti e Antonio Natali ci propongono di ribaltare proprio il punto di vista svelando al grande pubblico il mistero dei pentimenti dell'artista, le sue incertezze, gli oscuri segni di secoli di inventari, le dediche, le poesie e le prose che hanno accompagnato segretamente la vita di queste opere.
E si apre un universo sconosciuto e affatto umano costellato di immagini e segni che testimoniano sia le debolezze degli artisti come la perentorietà di classificazioni destinate ad essere comunque temporanee, come i pensieri e i sentimenti degli autori.
E' vero che nessuno dei visitatori può vedere cosa celi il retro di una tela o di una tavola, giacché la faccia che a lui si mostra è quella nobile. La parte posteriore resta un mistero. In questo senso l’esposizione odierna sarà anche un bel divertimento intellettuale scrive Antonio Natali nell'agile catalogo, edito da Sillabe, che accompagna la mostra.
E Giovanna Giusti definisce la mostra un'occasione per entrare nel mondo degli addetti ai lavori, per vedere le opere come a noi storici dell'arte che lavoriamo nei musei è dato fare, associando all'aspetto iconologico, privilegiato alla vista e fondamentale nella comprensione dei contenuti che abbracciano i dati storico-sociali, anche la decifrazione dei segni che ogni opera, a tutto tondo, si porta addosso.
26/12/13
19/12/13
GRANDE YASMINA - DUE PICCIONI con Aroldo Marinai
Eddai, ci siamo,
il 2013 finisce e si tirano le somme, si fa la classifica delle letture che più
ci sono piaciute durante l’anno. Un giochetto come un altro.
Ci sono sempre le
ri-letture (tante, inevitabili di questi tempi grigiastri) che per me sono
state: Gli anelli di Saturno (Sebald), In fuga (Michaels), La linea d’ombra
(Conrad), Donnarumma all’assalto (Ottieri), Salto mortale (Malerba), Il
meridionale di Vigevano (Mastronardi), Ghiaccio nove (Vonnegut), Homo faber
(Frisch), eccetera eccetera. Non sto a noiarvi oltre.
Le pagine
migliori le ho trovate in: Goethe muore (Bernhard), August (Wolf), Lungo la via
incantata (Blacker), I racconti di John Cheever, Siberiana (Castellina).
E poi ho incontrato,
udite udite, forse il miglior libro dell’anno, “Felici i felici” di Yasmina
Reza.
Perfetti i dialoghi,
bella la scrittura, lucida colta sapiente e divertente.
La Reza è
commediografa, scrittrice, sceneggiatrice. Si sente. Si gode.
Suo era il testo
della commedia (chiamiamola commedia) “Il dio del massacro” da cui Roman
Polanski ha tratto il film Carnage, successo di critica e pubblico, come usa
dire.
Se ho capito bene
ad un certo punto della sua premiata carriera le è stato affidato il compito di
ri-scrivere, a modo suo, vicende di vita di coppia ispirate alla serie
televisiva (bianco e nero) Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, chi se lo
ricorda.Per ora del film non se ne è fatto nulla, parrebbe. Ma il romanzo resta. Nei capitoli si intrecciano le vicende-confessioni di una moltitudine di personaggi (e quindi di coppie) i cui destini tampinando amori e rancori rimandano da una pagina all’altra in una lieta e drammatica giostra.
Feroce e godibilissimo.
Ma, si dirà,
questa rubrichetta non doveva spennare e sbuzzare due (2) piccioni alla volta
per fornire due (2) consigli o sconsigli di lettura? Perché questa volta uno
solo? Mettiamola così: questo libro vale
doppio, compratevene due copie e regalate la seconda copia a una persona che vi
piace.
Buone feste e
buone letture.
FELICI I FELICI, Yasmina Reza, Adelphi, 2013, 18 euro – Ho detto tutto.
18/12/13
NELL'ACQUA L'AUTORITRATTO DI BILL VIOLA AGLI UFFIZI di Gianni Caverni
Solo fino al 22 dicembre, attenti! Non è proprio il caso di lasciar passare questi pochi giorni senza darsi da fare per trovare assolutamente il tempo di andare a San Pier Scheraggio, agli Uffizi, a vedere Self Portrait, Submerged di Bill Viola. L'opera, realizzata quest'anno dal più famoso videoartista del mondo, è stata da lui donata alla Galleria per arricchire il Corridoio Vasariano, luogo da lungo tempo deputato ad accogliere una ricchissima collezione di autoritratti.
Viola, di origini italiane (il nonno era calabrese), ha stretto un rapporto saldo con Firenze fin da quando, a 23 anni, si trovò a lavorare nella nostra città, come tecnico, per Art/Tape/22 che fu fondato fra la fine del 1972 e l'inizio del 1973 da Maria Gloria e Giancarlo Bicocchi e che fu uno dei quattro centri italiani di produzione di Videoarte che, negli anni '70, hanno fatto la storia italiana di questo mezzo espressivo e di questo linguaggio.
Bill Viola (e non Vaiola come si ostinano a dire alcuni con snobistico birignao anglofono), nato a New York nel 1951, ha voluto dimostrare il suo amore per Firenze con il dono di quest'opera agli Uffizi "perché aver lavorato da giovane qui - come ha dichiarato al momento dell'inaugurazione - mi ha cambiato la vita ed è stato un passo decisivo nella mia definizione di videoartista".
L'autore appare, nello schermo disposto verticalmente nel cuore dell'abside dell'importante chiesa medievale in parte distrutta dal Vasari per fare spazio alla realizzazione della Galleria degli Uffizi nel 1560, immerso nell'acqua, vestito (con una camicia per l'appunto proprio viola): il minuto reale di apnea di Viola è stato da lui dilatato attraverso la sua consueta slow motion fino a raggiungere la durata di circa 11 minuti.
Il corpo dell'artista, il suo volto dagli occhi chiusi, le sue mani, appaiono su uno sfondo di sassi tondi di fiume: le distorsioni che muovono l'immagine non sono frutto di complessi effetti video, ma, al contrario, il risultato bellissimo e del tutto naturale, della mobilità dell'acqua attraverso la quale si vede la scena. Da anni Viola lavora utilizzando l'acqua che per lui ha il significato simbolico del cambiamento, della trasformazione, della rinascita e da sempre l'artista si è confrontato attivamente con l'arte italiana, particolarmente rinascimentale e manierista: indimenticabile, per fare un unico esempio, la sua reinterpretazione (The Greetings - 1995) della Visitazione di Pontormo conservata nella Cappella Capponi nella Propositura dei Santi Michele e Francesco a Carmignano e di recente restaurata.
17/12/13
IL RISO NON ABBONDA, ZALONE MIO! di Silvia Nardi Dei
Decido di accontentare una richiesta un po' "speciale" di Giulia: andare insieme al cinema a vedere un film che sceglie lei.
Questa volta però non era "Cattivissimo me" ma l'ultimo film di Checco Zalone. A parte il fatto che non sapevo che lei lo conoscesse: "Mamma, a scuola ne parlano tutti! E' uno che fa ridere, ha fatto un film che fa ridere, andiamo a ridere!".
In effetti, non fa una piega. Io al cinema non l'avevo mai visto, in televisione sì: ho riso tanto a sentire le sue "versioni" dei Negramaro, o di quella cantante siciliana.. ecco la Carmen Consoli, oppure Giovanni Allevi.
E invece non abbiamo riso. E questa cosa qui mi fa sentire un pochino strulla, per due motivi: il primo è che pare che questo film sia stato visto da una tale quantità di persone che allora brutto non dev'essere, il secondo, più grave, forse, è che non lascerò più che mia figlia scelga lei il film da andare a vedere, per lo meno per ancora qualche anno, perché voglio che il concetto di "bel film" non venga considerato questo, e quindi non rischi di diventare un ottimo motivo per non andarci, al cinema!
Una trama inutile, con dei personaggi, lui, in particolar modo, che vorrebbero, forse (ma si sbagliano di grosso) richiamare quelli di Totò, però calati ai giorni d'oggi. Eppure, gli ingredienti scelti avrebbero potuto funzionare, far ridere e anche riflettere: ci sono gli antipatici ricchi un po' radical chic che fanno yoga e mangiano vegano, c'è un protagonista sempliciotto che aspira solo ai beni materiali e che non sa parlare bene neanche l'italiano, c'è la crisi economica.
E invece tutto si perde e si confonde tra il solito maschilismo penoso, di cui però il protagonista si scusa subito, ridendoci su, con le solite canzoncine (la moglie operaia affranta che DEVE cucinare, stirare, far lavatrici, buttare la spazzatura e tollerare le sue spese pazze che lo porteranno al disastro e poi lei lo lascerà), la crisi economica per cui la fabbrica dove la moglie/serva/mamma lavora chiuderà, un figlioletto inspiegabilmente super intelligente, super simpatico, super consapevole dei difetti dei genitori che è saggio e comprensivo.
E lui, il protagonista, un cameriere stanco di fare il cameriere che decide di licenziarsi per trovare un altro lavoro che lo faccia guadagnare di più, in modo da permettersi tutti quei lussi di cui siamo vittime, più o meno inconsapevoli, ad ogni spot pubblicitario (televisori enormi, cellulari di ultima generazione, elettrodomestici costosissimi e inutili, eccetera eccetera eccetera).
Insomma, un idiota.
E inizialmente ci riesce pure, diventando rappresentante di aspirapolvere e vendendone in gran quantità, ma presto la goduria consumistica termina, lasciandolo indebitato con le finanziarie che battono cassa, (gli pignorano tutto) e termina anche la storia con la moglie/serva/operaia che a quel punto lo butta fuori di casa.
La gag che più di tutte non mi ha fatto ridere per nulla è stata l'improbabile promessa che il protagonista fa al figlioletto: se avesse preso a scuola tutti 10 lo avrebbe portato a fare una vacanza "fantastica". Il figlio mantiene la promessa, e lui, disorientato e arrabbiato, va dalla maestra per convincerla a dare al figlio almeno un nove... (Giulia non capiva l'ironia, che in effetti sfuggiva anche a me, ma in sala tutti ridevano...).
Nel solito intermezzo bucolico, dove padre e figlio si recano da una vecchia parente nella campagna molisana per la famosa vacanza a quel punto per nulla fantastica, fatta di luoghi comuni sulla vecchiaia contadina che forse non esiste neanche più (aggiungerei un purtroppo, ma Zalone non ce l'ha aggiunto, anzi), degli sprazzi di tragica ironia sul mondo dei ricconi disonesti che vivono nel mondo del superfluo, dove padre e figlio intoppano per caso e sempre per caso ne assaporano l'odore e ovviamente ne godono appieno.
Ma non è chiara l'intenzione del regista, oltre a non farci ridere per niente: quel mondo lo vorrà condannare o in qualche modo simpaticamente assolvere?? In questo ambiente ricco e disonesto, inspiegabilmente, Checco Zalone riesce a coinvolgere anche un debolissimo e impacciato Marco Paolini che fa il ruolo di un corrotto che non sa di nulla, non fa né ridere né riflettere.
Ho sbadigliato.
Alla fine la fabbrica dove lavora la moglie/serva/operaia non chiuderà più, l'amore trionferà, e quindi probabilmente l'inutile e il futile potranno riaffacciarsi nella vita di questa famigliola triste triste che però, con questo film, ha fatto ridere tutta l'Italia, e che pare a inizio dicembre avesse già incassato 50.000.000 di euro.
Io e Giulia siamo uscite dal cinema, dove fra l'altro faceva un freddo cane, e ci siamo guardate negli occhi: lei non ha capito perché non ha riso, io non ho capito perché ce l'ho portata e mi sono sentita una cretina ma cretina cretina cretina, ma insomma... almeno eravamo d'accordo, ecco.
Questa volta però non era "Cattivissimo me" ma l'ultimo film di Checco Zalone. A parte il fatto che non sapevo che lei lo conoscesse: "Mamma, a scuola ne parlano tutti! E' uno che fa ridere, ha fatto un film che fa ridere, andiamo a ridere!".
In effetti, non fa una piega. Io al cinema non l'avevo mai visto, in televisione sì: ho riso tanto a sentire le sue "versioni" dei Negramaro, o di quella cantante siciliana.. ecco la Carmen Consoli, oppure Giovanni Allevi.
E invece non abbiamo riso. E questa cosa qui mi fa sentire un pochino strulla, per due motivi: il primo è che pare che questo film sia stato visto da una tale quantità di persone che allora brutto non dev'essere, il secondo, più grave, forse, è che non lascerò più che mia figlia scelga lei il film da andare a vedere, per lo meno per ancora qualche anno, perché voglio che il concetto di "bel film" non venga considerato questo, e quindi non rischi di diventare un ottimo motivo per non andarci, al cinema!
Una trama inutile, con dei personaggi, lui, in particolar modo, che vorrebbero, forse (ma si sbagliano di grosso) richiamare quelli di Totò, però calati ai giorni d'oggi. Eppure, gli ingredienti scelti avrebbero potuto funzionare, far ridere e anche riflettere: ci sono gli antipatici ricchi un po' radical chic che fanno yoga e mangiano vegano, c'è un protagonista sempliciotto che aspira solo ai beni materiali e che non sa parlare bene neanche l'italiano, c'è la crisi economica.
E invece tutto si perde e si confonde tra il solito maschilismo penoso, di cui però il protagonista si scusa subito, ridendoci su, con le solite canzoncine (la moglie operaia affranta che DEVE cucinare, stirare, far lavatrici, buttare la spazzatura e tollerare le sue spese pazze che lo porteranno al disastro e poi lei lo lascerà), la crisi economica per cui la fabbrica dove la moglie/serva/mamma lavora chiuderà, un figlioletto inspiegabilmente super intelligente, super simpatico, super consapevole dei difetti dei genitori che è saggio e comprensivo.
E lui, il protagonista, un cameriere stanco di fare il cameriere che decide di licenziarsi per trovare un altro lavoro che lo faccia guadagnare di più, in modo da permettersi tutti quei lussi di cui siamo vittime, più o meno inconsapevoli, ad ogni spot pubblicitario (televisori enormi, cellulari di ultima generazione, elettrodomestici costosissimi e inutili, eccetera eccetera eccetera).
Insomma, un idiota.
E inizialmente ci riesce pure, diventando rappresentante di aspirapolvere e vendendone in gran quantità, ma presto la goduria consumistica termina, lasciandolo indebitato con le finanziarie che battono cassa, (gli pignorano tutto) e termina anche la storia con la moglie/serva/operaia che a quel punto lo butta fuori di casa.
La gag che più di tutte non mi ha fatto ridere per nulla è stata l'improbabile promessa che il protagonista fa al figlioletto: se avesse preso a scuola tutti 10 lo avrebbe portato a fare una vacanza "fantastica". Il figlio mantiene la promessa, e lui, disorientato e arrabbiato, va dalla maestra per convincerla a dare al figlio almeno un nove... (Giulia non capiva l'ironia, che in effetti sfuggiva anche a me, ma in sala tutti ridevano...).
Nel solito intermezzo bucolico, dove padre e figlio si recano da una vecchia parente nella campagna molisana per la famosa vacanza a quel punto per nulla fantastica, fatta di luoghi comuni sulla vecchiaia contadina che forse non esiste neanche più (aggiungerei un purtroppo, ma Zalone non ce l'ha aggiunto, anzi), degli sprazzi di tragica ironia sul mondo dei ricconi disonesti che vivono nel mondo del superfluo, dove padre e figlio intoppano per caso e sempre per caso ne assaporano l'odore e ovviamente ne godono appieno.
Ma non è chiara l'intenzione del regista, oltre a non farci ridere per niente: quel mondo lo vorrà condannare o in qualche modo simpaticamente assolvere?? In questo ambiente ricco e disonesto, inspiegabilmente, Checco Zalone riesce a coinvolgere anche un debolissimo e impacciato Marco Paolini che fa il ruolo di un corrotto che non sa di nulla, non fa né ridere né riflettere.
Ho sbadigliato.
Alla fine la fabbrica dove lavora la moglie/serva/operaia non chiuderà più, l'amore trionferà, e quindi probabilmente l'inutile e il futile potranno riaffacciarsi nella vita di questa famigliola triste triste che però, con questo film, ha fatto ridere tutta l'Italia, e che pare a inizio dicembre avesse già incassato 50.000.000 di euro.
Io e Giulia siamo uscite dal cinema, dove fra l'altro faceva un freddo cane, e ci siamo guardate negli occhi: lei non ha capito perché non ha riso, io non ho capito perché ce l'ho portata e mi sono sentita una cretina ma cretina cretina cretina, ma insomma... almeno eravamo d'accordo, ecco.
GLI INCUBI CONTEMPORANEI? SON RISALITI DALL'ARNO di Stilicone
Una sostanza che non dà mai assuefazione, ma che eccita fino a far diventare prolisso chi ne fa uso. Questo è l’effetto che fa l’arte contemporanea – e tutto ciò che odora di questa materia – a Sergio Risaliti. Il comportamento del critico d’arte ricorda il titolo di un celebre film del 1963 di Francesco Rosi. Ogni iniziativa d’arte contemporanea in città porta la sua firma o la sua regia, così come sono di rilievo i media cartacei che gli danno credito, dal Venerdì di Repubblica fino al Corriere Fiorentino; quest’ultimo, perduti prima Francesco Bonami (ma da un po’ ha ripreso a scrivere sulla testata diretta da Paolo Ermini) e poi Tomaso Montanari (che ha subito trovato “casa” a Repubblica Firenze) adesso concede spazi siderali ai ragionamenti del critico pratese. E lui sfrutta a dovere i suoi articoli. Nel senso che non fa né il giornalista da marciapiede (appena pochi giorni fa ha “scoperto” l’Opificio delle Pietre Dure perché accanto al restauro dell’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci si sta svolgendo quello di un’incomprensibile opera di Pollock intitolata Alchimia), né lo storico dell’arte che – bontà loro ogni tanto c’è chi lo fa – prende una piega divulgativa e fa l’Alberto Manzi del Rinascimento, l’Enrico Medi del Manierismo, l’Antonino Zichichi della scultura. No, Risaliti non fa niente di tutto ciò e, anzi, finisce col dar l’idea di scriversi un po’ addosso. Per cui ci dev’essere (e infatti c’è) qualcosa in più.
Buona parte di quel che scrive Risaliti sui giornali ha un risvolto legato alla sua attività di organizzatore di eventi espositivi. Sì insomma, essendo la pubblicità l’anima del commercio, lui non si tira indietro. Lo si capisce dalle ultime cinque righe dell’articolo che il Nostro ha scritto sull’edizione di venerdì scorso (13 dicembre) del Corriere Fiorentino. Trattando sempre di Alchimia, l’opera di Pollock in restauro all’Opificio, ha lanciato la proposta che l’opera, prima di tornare ad essere parte integrante della collezione Guggenheim di Venezia, sia mostrata a Firenze.
Insomma ci risiamo: basta senta odor di arte contemporanea, il Nostro va in solluchero, e si lancia in proposte di iniziative che poi qualcun altro pagherà. Perché un’altra delle specialità di Risaliti, è quella di ordire trame costosissime e poi di farle pagare alla comunità. Come l’incomprensibile (almeno di non avere a disposizione un elicottero) massicciata marmorea di Mimmo Paladino di un anno fa in piazza Santa Croce, nell’ambito della seconda edizione di “Florens” (fondazione che da sempre ha sposato le idee rivoluzionarie di Risaliti), costata oltre 100mila euro, o come la mostra di statue di cenere dell’artista cinese Zhang Huan a Forte Belvedere, visitata da quasi 50mila persone (oltre il 30% dei quali non paganti) nell’arco di 98 giorni (8 luglio-13 ottobre), con una media di circa 500 visitatori al giorno (meno di un decimo delle presenze giornaliere agli Uffizi), in un periodo in cui il turismo a Firenze invece ha raggiunto picchi storici. Ma forse è stata proprio questo genere di arte a tenere lontani i turisti dall’antico bastione, perché un conto sono i mostri di Huan e un altro è l’arte, tanto per fare qualche nome, di Moore, Paladino, Folon, sposata al fascino della fortezza dedicata a San Giorgio.
Perché quel che Risaliti non comprende – e in questo è in buona compagnia – è che a Firenze l’arte contemporanea ci può anche stare, ma non funziona come in altre città. E come tale non può – e soprattutto non deve – meritarsi tutte queste attenzioni e attrarre quote di risorse altrimenti destinate. Perché non c’era e non c’è nessun giapponese disposto a farsi 15 ore di aereo per venire in riva all’Arno a far l’inchino a qualche opera di artisti contemporanei presente in città. Perché Firenze, nel mondo, è famosa per altri generi artistici, che necessitano di energie d’ogni tipo per essere tutelati, conservati e valorizzati. Sono i numeri a dirlo che magari non esauriscono la lettura del mondo, ma aiutano a capirlo meglio. E siccome l’arte non si mantiene da sola, occorre pensare anche a dei rientri di denaro, utile per la fruizione del patrimonio, senza per altro neanche ipotizzare il suo sfruttamento come si trattasse di giacimenti petroliferi.
È questo che Risaliti evidentemente fa fatica a comprendere e sogna costantemente di organizzare eventi su eventi d’arte contemporanea che distolgono le attenzioni su quella parte di patrimonio che caratterizza Firenze e la sua fama nel mondo. E per piacere non parliamo di primati artistici: sia Hirst (che ha mostrato il suo teschietto sberluscente nella cameretta oscura attigua allo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio), sia Nannucci (il cui “capolavoro”, ovvero la scritta al neon colorato “All art has been contemporary”, fu “appesa” alla facciata sud degli Uffizi) hanno avuto bisogno dell’arte - e dell’architettura - classica per farsi ammirare. Se Risaliti - che per gli incubi tentacolari made in China di Huan ha scelto la fortezza cinquecentesca -, ma anche Bonami e altri fautori del contemporaneo, avessero avuto coraggio, avrebbero preteso di mostrare questa roba in altre sedi più consone, come l’Ex3 di Gavinana. Già, ma là chi le avrebbe viste?
Fin qui Stilicone. Mi sembra doveroso, in quanto "titolare" di Inganni Veraci commentare l'articolo di colui che, come combattente, ha scelto il nome de plume dell'eroe delle Caldine. Senza voler scendere nei particolari non mi trovo d'accordo con una visione così riduttiva del ruolo dell'arte contemporanea a Firenze la cui sicura vocazione a culla di un certo tipo di arte è fuori discussione. A parer mio, e non solo mio perché sennò sarebbe davvero trascurabile, l' anima rinascimentale della nostra città non deve essere una giustificazione per la "ghettizzazione" del contemporaneo. Insomma mi trovo perfettamente d'accordo col concetto espresso da Maurizio Nannucci nell'opera che tanto sdegno ha procurato a Stilicone: "Tutta l'arte è stata contemporanea": purtroppo una frase del genere che con troppa superficialità potrebbe essere letta come un'ovvia banalità trova proprio nell'indisponibilità di molti nostri concittadini la sua motivazione profonda; essere costretti ad affermarlo dà la non bella misura dello stato delle cose.
Gianni Caverni
Buona parte di quel che scrive Risaliti sui giornali ha un risvolto legato alla sua attività di organizzatore di eventi espositivi. Sì insomma, essendo la pubblicità l’anima del commercio, lui non si tira indietro. Lo si capisce dalle ultime cinque righe dell’articolo che il Nostro ha scritto sull’edizione di venerdì scorso (13 dicembre) del Corriere Fiorentino. Trattando sempre di Alchimia, l’opera di Pollock in restauro all’Opificio, ha lanciato la proposta che l’opera, prima di tornare ad essere parte integrante della collezione Guggenheim di Venezia, sia mostrata a Firenze.
Insomma ci risiamo: basta senta odor di arte contemporanea, il Nostro va in solluchero, e si lancia in proposte di iniziative che poi qualcun altro pagherà. Perché un’altra delle specialità di Risaliti, è quella di ordire trame costosissime e poi di farle pagare alla comunità. Come l’incomprensibile (almeno di non avere a disposizione un elicottero) massicciata marmorea di Mimmo Paladino di un anno fa in piazza Santa Croce, nell’ambito della seconda edizione di “Florens” (fondazione che da sempre ha sposato le idee rivoluzionarie di Risaliti), costata oltre 100mila euro, o come la mostra di statue di cenere dell’artista cinese Zhang Huan a Forte Belvedere, visitata da quasi 50mila persone (oltre il 30% dei quali non paganti) nell’arco di 98 giorni (8 luglio-13 ottobre), con una media di circa 500 visitatori al giorno (meno di un decimo delle presenze giornaliere agli Uffizi), in un periodo in cui il turismo a Firenze invece ha raggiunto picchi storici. Ma forse è stata proprio questo genere di arte a tenere lontani i turisti dall’antico bastione, perché un conto sono i mostri di Huan e un altro è l’arte, tanto per fare qualche nome, di Moore, Paladino, Folon, sposata al fascino della fortezza dedicata a San Giorgio.
Perché quel che Risaliti non comprende – e in questo è in buona compagnia – è che a Firenze l’arte contemporanea ci può anche stare, ma non funziona come in altre città. E come tale non può – e soprattutto non deve – meritarsi tutte queste attenzioni e attrarre quote di risorse altrimenti destinate. Perché non c’era e non c’è nessun giapponese disposto a farsi 15 ore di aereo per venire in riva all’Arno a far l’inchino a qualche opera di artisti contemporanei presente in città. Perché Firenze, nel mondo, è famosa per altri generi artistici, che necessitano di energie d’ogni tipo per essere tutelati, conservati e valorizzati. Sono i numeri a dirlo che magari non esauriscono la lettura del mondo, ma aiutano a capirlo meglio. E siccome l’arte non si mantiene da sola, occorre pensare anche a dei rientri di denaro, utile per la fruizione del patrimonio, senza per altro neanche ipotizzare il suo sfruttamento come si trattasse di giacimenti petroliferi.
È questo che Risaliti evidentemente fa fatica a comprendere e sogna costantemente di organizzare eventi su eventi d’arte contemporanea che distolgono le attenzioni su quella parte di patrimonio che caratterizza Firenze e la sua fama nel mondo. E per piacere non parliamo di primati artistici: sia Hirst (che ha mostrato il suo teschietto sberluscente nella cameretta oscura attigua allo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio), sia Nannucci (il cui “capolavoro”, ovvero la scritta al neon colorato “All art has been contemporary”, fu “appesa” alla facciata sud degli Uffizi) hanno avuto bisogno dell’arte - e dell’architettura - classica per farsi ammirare. Se Risaliti - che per gli incubi tentacolari made in China di Huan ha scelto la fortezza cinquecentesca -, ma anche Bonami e altri fautori del contemporaneo, avessero avuto coraggio, avrebbero preteso di mostrare questa roba in altre sedi più consone, come l’Ex3 di Gavinana. Già, ma là chi le avrebbe viste?
Fin qui Stilicone. Mi sembra doveroso, in quanto "titolare" di Inganni Veraci commentare l'articolo di colui che, come combattente, ha scelto il nome de plume dell'eroe delle Caldine. Senza voler scendere nei particolari non mi trovo d'accordo con una visione così riduttiva del ruolo dell'arte contemporanea a Firenze la cui sicura vocazione a culla di un certo tipo di arte è fuori discussione. A parer mio, e non solo mio perché sennò sarebbe davvero trascurabile, l' anima rinascimentale della nostra città non deve essere una giustificazione per la "ghettizzazione" del contemporaneo. Insomma mi trovo perfettamente d'accordo col concetto espresso da Maurizio Nannucci nell'opera che tanto sdegno ha procurato a Stilicone: "Tutta l'arte è stata contemporanea": purtroppo una frase del genere che con troppa superficialità potrebbe essere letta come un'ovvia banalità trova proprio nell'indisponibilità di molti nostri concittadini la sua motivazione profonda; essere costretti ad affermarlo dà la non bella misura dello stato delle cose.
Gianni Caverni
14/12/13
PAOLA: FUNERALI
alle 15,30, nella Cappella dei Pittori in SS Annunziata, lunedì.
PAOLA
La Camera Ardente sarà allestita domenica presso la Basilica della Santissima Annunziata a Firenze, nella Caqppella dei Pittori. I funerali si terranno nel pomeriggio di lunedì sempre presso la Basilica della Santissima Annunziata.
LOLLI GHETTI RISPONDE A MARA AMOREVOLI SU GLI UFFIZI A COLORI
Cara Mara,
grazie per l'articolo , per le citazioni e per l'attenzione
approfondita.
Non è però esatto dire che Vasari non aveva previsto i colori per le
sale, perché all'epoca sua le pareti delle sale destinate
all'esposizione di opere d'arte, come i corridoi o la tribuna o le
salette laterali, erano ricoperte da parati e stoffe sontuose, molto
colorate ovviamente, che dai documenti sappiamo essere state cremisi e
oro, o rosso e giallo più banalmente.
Ovvio che le sale destinate ai laboratori granducali fossero
probabilmente più spoglie, ma non avrei dubbi nell'asserire che il
famoso tonachino bianco toscano è solo una preparazione per altre
finiture, non destinato in caso di ambienti aperti ai visitatori ad
essere visibile.
Ma questa è questione che molto ferisce la sensibilità fiorentina.
Peccato che, come tu dici, non ci sia stato confronto internazionale,
ma non c'erano soldi e questo era solo un primo assaggio. Chissà se
qualcuno raccoglierà la sfida...
Mario Lolli Ghetti, ex soprintendente fiorentino ed ex dirigente
ministero Beni culturali
grazie per l'articolo , per le citazioni e per l'attenzione
approfondita.
Non è però esatto dire che Vasari non aveva previsto i colori per le
sale, perché all'epoca sua le pareti delle sale destinate
all'esposizione di opere d'arte, come i corridoi o la tribuna o le
salette laterali, erano ricoperte da parati e stoffe sontuose, molto
colorate ovviamente, che dai documenti sappiamo essere state cremisi e
oro, o rosso e giallo più banalmente.
Ovvio che le sale destinate ai laboratori granducali fossero
probabilmente più spoglie, ma non avrei dubbi nell'asserire che il
famoso tonachino bianco toscano è solo una preparazione per altre
finiture, non destinato in caso di ambienti aperti ai visitatori ad
essere visibile.
Ma questa è questione che molto ferisce la sensibilità fiorentina.
Peccato che, come tu dici, non ci sia stato confronto internazionale,
ma non c'erano soldi e questo era solo un primo assaggio. Chissà se
qualcuno raccoglierà la sfida...
Mario Lolli Ghetti, ex soprintendente fiorentino ed ex dirigente
ministero Beni culturali
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PAOLA BORTOLOTTI CI MANCHERA'
Donna dal carattere spigoloso Paola Bortolotti aveva un modo tutto suo di riuscire a farsi volere bene, lo testimoniano le parole addolorate che mi arrivano copiose e che condivido sinceramente.
Vi informerò dei funerali appena ne avrò conferma
Vi informerò dei funerali appena ne avrò conferma
10/12/13
CIAO MARZIO (CON 3 MICROSIE SUE)
Ciao Marzio
in qualche modo faremo, ma ... che peccato!
Marzio, amico da una vita, fratello, ha collaborato fra i primi a Inganni Veraci con le sue poesie e riflessioni. per ricordarlo oggi ne pubblico 3 che prima, sapendo come stava, non mi sembrava il caso di pubblicare.
m’impone d’amare
rincollo
raccolti sassi
rotti
sinora
s’ignòra
signora!
in qualche modo faremo, ma ... che peccato!
Marzio, amico da una vita, fratello, ha collaborato fra i primi a Inganni Veraci con le sue poesie e riflessioni. per ricordarlo oggi ne pubblico 3 che prima, sapendo come stava, non mi sembrava il caso di pubblicare.
Inquieto
in ore amare
che il malem’impone d’amare
rincollo
raccolti sassi
rotti
Domanda
che
sorte
dopo
la morte?sinora
s’ignòra
signora!
Cambio di
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fine !
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UFFIZI A COLORI di Mara Amorevoli
Gli Uffizi diventano sempre più “Nuovi Uffizi”. Con l’inaugurazione di
nuove sale che lentamente svuotano i depositi, riordinano le collezioni e ampliano la prima Galleria d’Italia. Insomma
i lavori procedono, verso quell’atteso e annoso raddoppio del museo, avviato
già quando il ministro dei beni culturali era Walter Veltroni.
Un ampliamento che, tra le altre novità, dal 2011 ha visto virare verso i colori le rigorose e pallide pareti degli spazi via via riguadagnati nella Galleria. A segnare il debutto, ci sono state dieci sale con le pareti <blu> dove sono esposti i dipinti delle Scuole straniere. Seguite da quelle <rosse> dedicate agli artisti del Manierismo. Infine da ieri abbiamo sei sale <gialle> per i dipinti del ‘600 e ‘700. Mentre si annunciano le prossime, le <verdi> per un’altra sezione dedicata alla Maniera Moderna. Ogni secolo o movimento artistico, ha il suo colore, o almeno pare che richieda la sua <maniera> di allestimento.
Un ampliamento che, tra le altre novità, dal 2011 ha visto virare verso i colori le rigorose e pallide pareti degli spazi via via riguadagnati nella Galleria. A segnare il debutto, ci sono state dieci sale con le pareti <blu> dove sono esposti i dipinti delle Scuole straniere. Seguite da quelle <rosse> dedicate agli artisti del Manierismo. Infine da ieri abbiamo sei sale <gialle> per i dipinti del ‘600 e ‘700. Mentre si annunciano le prossime, le <verdi> per un’altra sezione dedicata alla Maniera Moderna. Ogni secolo o movimento artistico, ha il suo colore, o almeno pare che richieda la sua <maniera> di allestimento.
Tuttavia va detto che le sale
inaugurate ieri, non hanno le pareti completamente gialle, ma solo dei pannelli
–uno per sala- in giallo ocra virato all’oro, colore consono e tipico di molti dipinti
barocchi.
Un richiamo dunque, più che una coloritura, che esalta, ambienta e valorizza i grandi quadri con squarci di luce su nature morte (dell’Empoli, Bartolomeo Bimbi..), paesaggi (da Filippo Napoletano a Pandolfo Reschi), allegorie, figure e ritratti(da Carlo Dolci a Suttermans), che fanno seguito alla sala 90 con le opere di Caravaggio. Sei sale tematiche, “unico caso agli Uffizi” ha sottolineato il direttore Antonio Natali illustrando i 48 quadri del ‘600 fiorentino e senese (Rutilio Manetti e Francesco Rustici) usciti in parte dai depositi o traslocati qui dal Corridoio Vasariano.
Un richiamo dunque, più che una coloritura, che esalta, ambienta e valorizza i grandi quadri con squarci di luce su nature morte (dell’Empoli, Bartolomeo Bimbi..), paesaggi (da Filippo Napoletano a Pandolfo Reschi), allegorie, figure e ritratti(da Carlo Dolci a Suttermans), che fanno seguito alla sala 90 con le opere di Caravaggio. Sei sale tematiche, “unico caso agli Uffizi” ha sottolineato il direttore Antonio Natali illustrando i 48 quadri del ‘600 fiorentino e senese (Rutilio Manetti e Francesco Rustici) usciti in parte dai depositi o traslocati qui dal Corridoio Vasariano.
Uffizi
tavolozza? Uffizi arcobaleno? Uffizi caleidoscopio? Sarebbe interessante aprire
un dibattito. Di fatto la scelta della coloritura delle pareti di molte sale ha
le sue motivazioni. Spiegate e suffragate da studi iconografici e museologici
da parte dei responsabili della galleria. Un mese fa si è tenuto alla
Biblioteca degli Uffizi un dottissimo convegno - purtroppo seguito solo dagli
addetti ai lavori e non aperto a contributi e confronti internazionali -
proprio su “Il colore nei musei”. Sulla
loro riscoperta ha molto indagato l’ex soprintendente Mario Lolli Ghetti,
ideatore e animatore del convegno e fautore del recupero di decorazioni e
coloriture in musei, gallerie e palazzi. “Una storia dei colori che accompagna
quella dei luoghi, delle funzioni e delle collezioni che deve essere riletta
con lo sguardo del museologo, del curatore direttore e tradotta in scelta
museografica“ precisa Isabella Lapi Ballerini, direttrice regionale.
Nel
caso degli Uffizi, il rigore del progetto di Vasari, le sue linee ribadite da
bianchi e grigi di pietra serena, e dai pavimenti in cotto rosso in ogni sala,
hanno sempre vinto ogni confronto e voglia di cambiamento. Fino ad oggi
appunto. Fino a quando Alessandra Marino, direttrice dei lavori dei Nuovi
Uffizi e il direttore della galleria Antonio Natali, con il consenso della
soprintendenza e di altre professionalità, non hanno deciso di osare i colori. Proprio
lì dove Vasari non aveva usato né il colore né l’opulenza dei decori, sfoggiati
ad esempio nel Salone dei ‘500 in Palazzo Vecchio, per lasciare tutta la scena
alle opere d’arte.
Oggi il
risultato è davanti agli occhi di tutti i visitatori. Le pareti colorate aiutano a leggere meglio
quadri e dipinti? Ne esaltano la fruizione estetica, il tenore emotivo, la
bellezza? Creano davvero una nuova
armonia necessaria? E’ solo una moda un po’ decadente imposta dal gusto del nostro
tempo, destinata a sparire in futuro nel viavai di poltrone di funzionari e
soprintendenti con appunto gusti diversi? Ognuno può dire la sua. Fiorentini e visitatori
sono chiamati a pronunciarsi.
Sicuramente le nuove cinque sale appena
inaugurate sono un passo avanti verso una galleria sempre più grande e moderna.
E, colori delle pareti a parte, quello che serve urgentemente è un’illuminazione
adeguata dei capolavori di luci ed ombre del nostro ‘600. Solo una delle
nuovissime sale è attrezzata di faretti in modo efficace.
Altrimenti tutti i dipinti esposti risultano superfici piatte, cupe e quasi illeggibili. I primi colori che i visitatori vogliono vedere bene, sono di certo i cromatismi dei quadri. Ancora una volta, cercasi disperatamente mecenate per nuove luci agli Uffizi.
Altrimenti tutti i dipinti esposti risultano superfici piatte, cupe e quasi illeggibili. I primi colori che i visitatori vogliono vedere bene, sono di certo i cromatismi dei quadri. Ancora una volta, cercasi disperatamente mecenate per nuove luci agli Uffizi.
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08/12/13
UNA SPLENDIDA SERATA A TEATRO di Domenico Coviello
Per il suo più che quarantesimo
compleanno Ivan D. aveva scelto di andare a teatro. Ivan amava un piccolo
teatro nell’Oltrarno fiorentino, sebbene lo frequentasse poco: era proprio lì
che voleva recarsi, poiché era convinto che quell’annunciata pièce
caratterizzata dalla performance di un ballerino non vedente era qualcosa da
non perdere. Ciò perché Ivan si fidava della sua amica S., una delle
organizzatrici dell’evento, la quale inoltre, molto gentilmente, gli aveva
offerto un “accredito stampa” (Ivan fu cronista, in effetti, ma in tempi
lontani e tuttavia S. aveva simpatia per lui e non mancava mai di ricordarsi
del suo passato giornalistico, per altro non di eccelsa qualità).
La giornata di Ivan, quel venerdì 6, non
era stata all’altezza di una “festa di compleanno”… (il principino triste, così
anche potremmo chiamarlo, era rimasto intrappolato in confusionali storie di
donne, da lui inutilmente approcciate, poiché esse non erano quelle giuste per
lui). Ma adesso, con la serata teatrale, tutto poteva svoltare. Come un
salvataggio in corner sulla linea di porta. Lo spettacolo al piccolo teatro,
molto celebre in città, sarebbe cominciato alle 21. Anche la settimana prima
Ivan era stato lì e il sipario non era stato alzato prima delle 21.15, così lui
se la prese con calma. Puntualissimo, nel contesto della sua ritardataggine
inguaribile, arrivò alle 21.16.
Trafelatamente vide il portone chiuso e
passò oltre. Era chiaro che stava sbagliando ingresso. Del resto, ecco che
laggiù, poco più avanti, un' altra e più grande apertura brulicava di gente.
Ivan si fece largo fra giovani trentenni molto distinti ed eleganti. Gli uomini
sfoggiavano smoking preziosi e paltò di Trussardi, le donne, per lo più in
abito lungo, mostravano labbra rosse come la passione e acconciature di capelli
degne di una Prima alla Scala.
Ivan, vestito all’incirca come un
ciclista infreddolito d’inverno, ebbe l’intuizione di aver sbagliato ingresso
per la seconda volta; di non poter far parte di quella probabile serata di galà
eventualmente offerta a un ristretto circolo di Iniziati da un qualsivoglia
marchese. E poi, le signorine sorridenti con le liste dei posti “reservé” glielo
stavano dicendo a chiare lettere con malcelato imbarazzo: “Qui non c’è lo
spettacolo che dice lei, sa? Qui c’è un evento…”. Lì c’era un EVENTO. Chiaro
Ivan? (No).
La costernazione cominciò a dipingersi
sul suo volto. Tornò indietro e uscì. Non prima di aver captato con le orecchie
una perentoria affermazione rivolta a uno di quei distinti giovani in smoking
da un’elegantissima dama fiorentina presente all’evento di gala: “…Tu m’ha
rotto ‘coglioniiii!..”.
Adesso il principino dal sorriso triste
ne aveva la certezza, non era lì lo spettacolo dell’acrobatico ballerino non
vedente: la sua bella amica e collega S., che lo aveva invitato alla serata,
non frequentava ricconi volgarotti in gran spolvero (né poveri arricchiti con
due Rolex e “ciondoli alla livornese” al collo).
Ivan, mosso dal ritardo che cresceva
inesorabile secondo dopo secondo, si mise a correre con lo sguardo allampanato
e il cuore a mille (come il Brutto ne “Il Buono, il brutto e il cattivo” dentro
al cimitero a cercar la tomba anonima con sotto i dollari prima che arrivassero
gli altri).
E si diresse nuovamente verso il primo ingresso che aveva trovato
chiuso. Era il vero portone del piccolo teatro!
Ed era sbarrato come il portale di una città medievale sotto l’assedio di
Federico I Barbarossa!
Che la pièce fosse saltata a causa del caos in città per lo
sciopero selvaggio dell’Ataf? si chiese Ivan ormai in preda al panico. Sul
portone-portale, comunque, non vi era alcun cartello che avvisasse i
ritardatari…che so, “lo spettacolo è cominciato, non è possibile entrare,
grazie”. Il mistero si infittiva. Di certo Ivan, perennemente in preda a sensi
di colpa, se ne fece, appunto, una colpa. Come se il portone-portale lo avesse
sbarrato lui. Inforcando mestamente la sua bici se ne
ritornò sui suoi passi. E sentì il bisogno di una sbornia per dimenticare
quella giornatina di compleanno non felicissima: respinto, per l’ennesima
volta, dalle donne che inseguiva invano e tenuto fuori dal portone di quel
teatro, come un cane. Con anche, addosso, il marchio della figuraccia verso la
sua amica S., che gli aveva pure offerto il biglietto gratis.
Si imbucò in un Caffè dell’Oltrarno e
ordinò un limoncello. Poi decise di ubriacarsi: si mise a leggere il Fatto
Quotidiano e in particolare tutti gli approfondimenti che facevano seguito allo
scoop di Marco Travaglio sugli appunti del defunto ministro Padoa-Schioppa,
stando ai quali, durante il Governo Prodi II, l’attuale Presidente della
Repubblica sarebbe stato un “sabotatore” dell’azione dell’Esecutivo.
Ne uscì dopo un’ora. Rincuorato. E
convinto di voler acquistare, d’ora in avanti, ogni santo giorno il Fatto
Quotidiano: il Presidente Romano Prodi, pugnalato politicamente dai “101
traditori” del Pd, lo scorso aprile, era come San Sebastiano martire: colpito
dalle frecce ingrate perfino dell’attuale Capo dello Stato già anni prima,
oltreché affondato politicamente dal tradimento del senatore De Gregorio, reo
confesso di essersi venduto a Silvio Berlusconi nel 2008. Ciò accresceva agli
occhi di Ivan la grandezza del Presidente Prodi, il Parroco dell’Ulivo, come lo
chiamava Forattini.
L’unico politico di alto rango italiano che abbia saputo
uscire di scena dimettendosi senza far tanto rumore. Un grande, pensò Ivan: per
lui il portone-portale del piccolo teatro dell’Oltrarno sarebbe rimasto aperto.
E in caso contrario lui avrebbe saputo dar le dimissioni da spettatore.
Pugnalato ancora una volta.
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06/12/13
BISOGNA GUARDARE E ASCOLTARE di Barbara Dardanelli
Uno dei primi lavori importanti che feci quando inizia a lavorare del mio mentore e ora fratello Luca Nesti, fu andare a Milano, al Nautilus, per portare e seguire il master del cd di Pupo "L'equilibrista".
Era da poco che avevo iniziato a lavorare per Luca e lavorare era una parola che forse era poco adatta al contesto. Ricordo che mi teneva ore e ore su un divano ferma, senza far niente, dovevo solo guardare e ascoltare. Così osservavo e ascoltavo. Osservavo le mani che veloci si spostavano su quei pippoli di cui ignoravo l'utilità, ascoltavo interminabili telefonate, assistevo ad appuntamenti e a sessioni di registrazioni, a ore di prove per capire se un microfono era adatto o meno alla scopo. Poi un giorno Luca mi chiamò e mi disse, comprati un biglietto del treno per Milano, domani vai al Nautilus tre giorni a masterizzare il cd di Pupo. Così partii con questa scatolina piena di note e parole, presi un albergaccio due stelle vicino alla stazione che la mattina mi davano un caffélatte pieno d'acqua e una brioche incelophanata, dura come il cemento. Al Nautilus ci arrivavo la mattina e uscivo la sera, anche lì osservavo, ore e ore ad ascoltare lo stesso frammento di nota e ad osservare smuovere altri pippoli, in una consolle che sembrava quella di un'astronave.
Ogni tanto lo spippolatore di pippoli, che poi scoprii essere uno dei più importanti e bravi spippolatori di pippoli italiani, si girava verso di me e mi diceva "meglio così, no?". Io annuivo ma dentro di me pensavo "Meglio? boh" e allora mi attaccavo al telefono con Luca, spiegandogli che lo spippolatore aveva agito su dei pippoli su di una microfrazione di nota e che mi chiedeva se il suono era migliorato, ma non so perché, avevo paura mi stesse mettendo alla prova, o peggio prendendo per il culo, perché per me era tutto uguale a prima. Luca mi rassicurava dicendomi di rispondergli di sì. Allora io rientravo e mi preparavo la faccia al mio si più convincente. In quei giorni c'era Tricarico a farsi spippolare il suo nuovo e primo lavoro, fresco fresco di capello cespugliato e di un successo tormentone che parlava di un bambino di nome Francesco incompreso e di una maestra puttana.
A pranzo mangiavamo lì, tutti insieme, spippolatori, artisti e io, che ancora non capivo di che categoria facessi parte. Mi ricordo che per darmi un tono e sembrare meno provinciale, mi finsi vegetariana, a quei tempi era fico a Milano essere vegetariani, poi quando uscivo dal Nautilus mi fiondavo però al McDonald's a sfondarmi di hamburger. In quei giorni passavano da Milano i Sigur Ros e quelli del Nautilus fecero in modo di mettermi un accredito, quindi mi vidi anche il mio primo concerto accredita da addetta ai lavori.
Ero sola, stordita, negli orecchi mi rimbombava solo quella frazione di nota del nuovo inedito di Pupo e gli occhi non facevano che guardare, osservare, immagazzinare al di là dei pippoli cosa c'era per me. Poi arrivò il giorno che finalmente "Su di noi", "Gelato al cioccolato" e tutto il resto del cd era stato spippolato a dovere e io dovevo pagare. Mi ricordo che sbagliai anche a compilare l'assegno che Luca mi aveva firmato, credo che dopo giorni e giorni di sforzi per risultare credibile, quello fu il momento in cui in un attimo vidi crollare tutto il castello che avevo con difficoltà creato intorno al mio esser ancora nessuno, commedia vegetariana compresa.
Una vergogna indicibile, sarei voluta sparire, mi sembrava che tutti mi guardassero commiserandomi. Poi arrivò Tricarico e mi disse "vai via?" "sì, ho finito finalmente" "bisogna essere eroi per stare tre giorni ad ascoltare Pupo" "non è stato poi così male" "alla prossima".
Ecco quell' "alla prossima", mi aprì il cuore. Forse era stato detto così, per gentilezza, come si dicono certe cose senza dare un peso alle parole. Eppure nei miei orecchi quelle parole suonavano come una premonizione. Al Nautilus a guardare spippolare non ci sono più tornata, ma ho continuato ad osservare e piano piano ho trovato il mio posto, perché prima di diventare credibili, bisogna guardare e ascoltare, finché i sensi non iniziano a farti male. Questo è l'unico allenamento che vale nel mio lavoro.
P.S. L'equilibrista di Pupo è un gran pezzo.
Ecco quell' "alla prossima", mi aprì il cuore. Forse era stato detto così, per gentilezza, come si dicono certe cose senza dare un peso alle parole. Eppure nei miei orecchi quelle parole suonavano come una premonizione. Al Nautilus a guardare spippolare non ci sono più tornata, ma ho continuato ad osservare e piano piano ho trovato il mio posto, perché prima di diventare credibili, bisogna guardare e ascoltare, finché i sensi non iniziano a farti male. Questo è l'unico allenamento che vale nel mio lavoro.
P.S. L'equilibrista di Pupo è un gran pezzo.
02/12/13
TOGLIETEMI TUTTO MA NON IL MIO BRAY di Stilicone
Tomaso Montanari, lo storico dell’arte
fiorentino che insegna alla Federico II di Napoli, è uno che di corretto non ha
neanche il nome, e che sta ormai incarnando il ruolo del “Grillo dei beni
culturali” più che “Robin Hood dei musei pubblici”. Vuoi perché è più dedito al
tritolo verbale che all’eguaglianza tra i cittadini e perché, come il comico
genovese, senza un megafono in mano, è solo uno che discute e alza la voce al
bar. Sì, insomma, uno dei tanti che non sanno quel che dicono.
Montanari è così poco credibile che, pur
citando a ogni pié sospinto la Costituzione – fino alla noia, verrebbe da
pensare – poi non ci pensa due volte a sventolare davanti le telecamere di
“Report” un foglio (quello del progettato tariffario dei luoghi museali di
Firenze per concessioni private) che è stato trafugato, cioè ottenuto in
maniera illegale. Quindi il primo a non rispettarla, la Madre di tutte le leggi
italiane, è proprio lui.
Montanari vorrebbe abolire le soprintendenze,
senza rendersi conto che esse rappresentano l’ultimo baluardo alla ventilata
privatizzazione del patrimonio culturale pubblico, senza le quali, cioè,
conservazione, tutela e (corretta) valorizzazione diventerebbero concetti
astratti, piegati ai volere di pochi utilizzatori senza scrupoli. Come sono,
per esempio, politici e amministratori che pretendono prestiti eccellenti per
le loro iniziative pressoché private (almeno da un punto di vista del ritorno
d’immagine). È accaduto tante troppe volte. Nel 2007 l’allora ministro della
cultura, Rutelli, non batté ciglio di fronte ai capricci dell’ambasciatore
italiano in Giappone, Bova, che chiese e ottenne il prestito dell’Annunciazione di Leonardo da Vinci,
degli Uffizi, a Tokio.
Il capolavoro non aveva mai lasciato Firenze. In quell’occasione, per evidenti motivi politici, il “padrone” di Montanari, Salvatore Settis, non intervenne, non scrisse una riga di protesta sui giornali, lui che è sempre così prolisso. Quando gli fa comodo. Infatti, pochi mesi dopo, cambiato il governo, quando Berlusconi voleva portare i Bronzi di Riace alla Maddalena, per il G8, Settis mise in piedi una campagna di protesta senza precedenti. Ma allora, ora che sui giornali è apparsa la possibilità che per l’Expo di Milano del 2015, dagli Uffizi possano partire nuovamente dei capolavori (Annunciazione di Leonardo compresa), perché Montanari e Settis stanno zitti? Forse perché al governo c’è un esponente del PD (come nel 2007) e a capo della cultura un dalemiano? Di certo il silenzio di Montanari e Settis non è normale.
Il capolavoro non aveva mai lasciato Firenze. In quell’occasione, per evidenti motivi politici, il “padrone” di Montanari, Salvatore Settis, non intervenne, non scrisse una riga di protesta sui giornali, lui che è sempre così prolisso. Quando gli fa comodo. Infatti, pochi mesi dopo, cambiato il governo, quando Berlusconi voleva portare i Bronzi di Riace alla Maddalena, per il G8, Settis mise in piedi una campagna di protesta senza precedenti. Ma allora, ora che sui giornali è apparsa la possibilità che per l’Expo di Milano del 2015, dagli Uffizi possano partire nuovamente dei capolavori (Annunciazione di Leonardo compresa), perché Montanari e Settis stanno zitti? Forse perché al governo c’è un esponente del PD (come nel 2007) e a capo della cultura un dalemiano? Di certo il silenzio di Montanari e Settis non è normale.
Si diceva del megafono che rientra nei bisogni
vitali di Montanari. Adesso pare l’abbia proprio trovato. Si chiama Massimo
Bray, l’attuale ministro dalemiano della cultura. Tempo fa questi ha nominato
Montanari componente di una commissione incaricata di proporre linee guida per
la riforma del Ministero. Un incarico di rilievo, importante. Ciò nonostante
Montanari non smesso un attimo di attaccare alcuni dei responsabili delle
Soprintendenze italiane, e di sparare a zero sui concessionari dei servizi che
lo Stato, legalmente, ha appaltato ai privati perché da solo non ce la fa più.
Far parte di una commissione per riformare il Ministero, quindi per razionalizzare
il suo funzionamento, non dà diritto a minarne continuamente le basi. Vieppiù se
ciò vede protagonista una persona, Montanari, che spesso non ha i titoli per
parlare. Prendiamo la questione dell’acquisto da parte dello Stato del
Crocifisso attribuito a Michelangelo. Montanari (come altre tre studiosi,
Settis, Caglioti e Paola Barocchi) ha fortemente criticato l’operazione
affermando che quello non è un Michelangelo. Bene, se si va a spulciare i curricula di tutti e quattro questi
signori, non uno di loro ha una sola pubblicazione su Michelangelo scultore.
Così come Mr. Johnstone, il perito della casa d’aste Christie’s che la Corte
dei Conti incaricò per dare un valore all’oggetto acquistato, nell’ambito del
processo a carico di alcuni componenti il Ministero) tra cui l’allora Direttore
Generale, Roberto Cecchi, e il Soprintendente di Firenze, Cristina Acidini):
anche lui, come i suddetti quattro, non ha mai pubblicato un articolo
scientifico su Michelangelo scultore. Quindi… di cosa stiamo parlando?
Montanari, dunque, parla perché c’è chi gli dà
credito (testate giornalistiche dove opera personale senza scrupoli e
assolutamente ignorante in materia) e chi gli dà voce, chi gli fa da megafono. Come
detto, Montanari vorrebbe la distruzione delle soprintendenze, senza sapere – o
forse lo sa ma non gli importa – che quella di Firenze, per esempio, ogni anno
elargisce fondi utili a tenere in piedi anche il Polo museale di Napoli (dove
lui lavora), a proseguire i lavori per i Nuovi Uffizi e, da quest’anno, anche
rimpinguare le casse del Mibac con altri 2,5 milioni di euro. Come dire che il
Polo fiorentino è uno dei principali bancomat culturali d’Italia. Montanari
vorrebbe distruggere tutto ciò. E la sua azione si svolge anche attraverso
proclami amplificati dai suoi seguaci. Tra questi, l’ultimo “arruolato” è
proprio il ministro Bray.
Il recente tweet del Ministro sullo stato di agitazione del personale Cgil e Cisl degli Uffizi profuma d’ispirazione di Montanari - talmente è talebano, inutile, tendenzioso -,il quale non può che essere grato al suo ministro che lo conserva, lo tutela, lo valorizza, e lo lascia baloccarsi con gli istituti periferici del Ministero che il professorino vorrebbe smontare e rimontare a suo piacimento, come si trattasse del Lego. Della serie: toglietemi tutto, ma non il mio Bray!
Il recente tweet del Ministro sullo stato di agitazione del personale Cgil e Cisl degli Uffizi profuma d’ispirazione di Montanari - talmente è talebano, inutile, tendenzioso -,il quale non può che essere grato al suo ministro che lo conserva, lo tutela, lo valorizza, e lo lascia baloccarsi con gli istituti periferici del Ministero che il professorino vorrebbe smontare e rimontare a suo piacimento, come si trattasse del Lego. Della serie: toglietemi tutto, ma non il mio Bray!
30/11/13
IL PRANZO NELLO SCRIGNO di Gaia Rau
A forza di vederlo in televisione,
scientificamente preparato e meticolosamente impiattato, oggetto di
competizioni tanto feroci quanto asettiche, tendiamo quasi a scordarci di
quanto il cibo possa profumare, consolarci, farci innamorare. Poi certo, anche
riempire la pancia, ingrassare, avvelenare, ma tendenzialmente, per quanto mi
riguarda, preferisco concentrarmi sulle prime tre qualità. E’ anche per questo
che “Lunchbox”, opera prima del regista indiano Ritesh Batra, mi ha subito
conquistato. Perché con questo film il rischio di dimenticare quanto amiamo
mangiare (e innamorarci) non si corre: gli aromi e i colori delle spezie
sembrano bucare lo schermo, invaderci il cuore senza chiedere il permesso,
ricordarci che se davvero la vita è abitudine e nient’altro, forse,
parafrasando le parole di Ila, la protagonista, è quel “nient’altro” il motivo
per cui viviamo.
La storia è quella tipica, da manuale,
dell’incontro di due solitudini. Lei è una casalinga sufficientemente disperata,
lui un impiegato vedovo alla soglia della pensione. Lei si sforza di credere
che “la strada per il cuore passi attraverso lo stomaco”, lui è uno che lungo
la sua, di strada, prende a calci i gatti randagi. Lei ogni giorno cucina a un
insofferente marito un piccolo pranzo di Babette in versione tascabile e lo
sistema nella “lunchbox” del titolo - un contenitore di metallo a più piani,
identico a quello di milioni di lavoratori in tutto il mondo - che una zelante
équipe di portapranzi si incarica poi di prelevare a domicilio e di recapitare,
attraverso un viaggio della speranza nel traffico di Mumbai, sulla scrivania
del fortunato. Capita che un giorno la lunchbox preparata da lei finisca, per
sbaglio, sul tavolo di lui, che invece i pasti li ordina in un ristorante di
seconda categoria. Ed ecco che la più classica e deliziosa delle commedie
romantiche è servita.
Da aggiungere, sull’evolversi del racconto,
c’è ben poco: chi da un film si aspetta trame complicate, sovvertimenti di
ruoli e colpi di scena rimarrà, è il caso di dirlo, profondamente deluso. In
fondo, più che nella storia in sé, o nell’incontestabile bravura dei due
protagonisti, la ragione per andare a vedere “Lunchbox” sta nell’oggetto stesso
del titolo. In quel piccolo scrigno delle meraviglie in cui Ila, ogni giorno,
riesce a far entrare, con la maestria di una prestigiatrice, un pasto ricco
come un banchetto, di quelli che vanno mangiati a sedere e con tutta la calma
necessaria e che, nel migliore dei mondi possibili, richiederebbero anche una
bella apparecchiatura e un pisolino di apprezzamento. Qualcosa che noi, abituati alle nostre pause
pranzo un po’ precotte e un po’ rubate, non possiamo che invidiare
profondamente. Anche se forse, personalmente, la cosa che più ho invidiato è la
pazienza di Ila, la sua capacità di compiere ogni giorno una piccola magia, il
suo mettersi alla prova con qualcosa di semplice ma al tempo stesso
complicatissimo. Il suo prendersi del tempo, soprattutto, per regalare a se
stessa all’essere amato un momento straordinario nell’ordinarietà del
quotidiano.
Per chi vive a Firenze, il film rimarrà in
programmazione allo Stensen per tutto dicembre, doppiato e in lingua originale,
con orari consultabili sul sito www.stensen.org.
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