Una sostanza che non dà mai assuefazione, ma che eccita fino a far diventare prolisso chi ne fa uso. Questo è l’effetto che fa l’arte contemporanea – e tutto ciò che odora di questa materia – a Sergio Risaliti. Il comportamento del critico d’arte ricorda il titolo di un celebre film del 1963 di Francesco Rosi. Ogni iniziativa d’arte contemporanea in città porta la sua firma o la sua regia, così come sono di rilievo i media cartacei che gli danno credito, dal Venerdì di Repubblica fino al Corriere Fiorentino; quest’ultimo, perduti prima Francesco Bonami (ma da un po’ ha ripreso a scrivere sulla testata diretta da Paolo Ermini) e poi Tomaso Montanari (che ha subito trovato “casa” a Repubblica Firenze) adesso concede spazi siderali ai ragionamenti del critico pratese. E lui sfrutta a dovere i suoi articoli. Nel senso che non fa né il giornalista da marciapiede (appena pochi giorni fa ha “scoperto” l’Opificio delle Pietre Dure perché accanto al restauro dell’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci si sta svolgendo quello di un’incomprensibile opera di Pollock intitolata Alchimia), né lo storico dell’arte che – bontà loro ogni tanto c’è chi lo fa – prende una piega divulgativa e fa l’Alberto Manzi del Rinascimento, l’Enrico Medi del Manierismo, l’Antonino Zichichi della scultura. No, Risaliti non fa niente di tutto ciò e, anzi, finisce col dar l’idea di scriversi un po’ addosso. Per cui ci dev’essere (e infatti c’è) qualcosa in più.
Buona parte di quel che scrive Risaliti sui giornali ha un risvolto legato alla sua attività di organizzatore di eventi espositivi. Sì insomma, essendo la pubblicità l’anima del commercio, lui non si tira indietro. Lo si capisce dalle ultime cinque righe dell’articolo che il Nostro ha scritto sull’edizione di venerdì scorso (13 dicembre) del Corriere Fiorentino. Trattando sempre di Alchimia, l’opera di Pollock in restauro all’Opificio, ha lanciato la proposta che l’opera, prima di tornare ad essere parte integrante della collezione Guggenheim di Venezia, sia mostrata a Firenze.
Insomma ci risiamo: basta senta odor di arte contemporanea, il Nostro va in solluchero, e si lancia in proposte di iniziative che poi qualcun altro pagherà. Perché un’altra delle specialità di Risaliti, è quella di ordire trame costosissime e poi di farle pagare alla comunità. Come l’incomprensibile (almeno di non avere a disposizione un elicottero) massicciata marmorea di Mimmo Paladino di un anno fa in piazza Santa Croce, nell’ambito della seconda edizione di “Florens” (fondazione che da sempre ha sposato le idee rivoluzionarie di Risaliti), costata oltre 100mila euro, o come la mostra di statue di cenere dell’artista cinese Zhang Huan a Forte Belvedere, visitata da quasi 50mila persone (oltre il 30% dei quali non paganti) nell’arco di 98 giorni (8 luglio-13 ottobre), con una media di circa 500 visitatori al giorno (meno di un decimo delle presenze giornaliere agli Uffizi), in un periodo in cui il turismo a Firenze invece ha raggiunto picchi storici. Ma forse è stata proprio questo genere di arte a tenere lontani i turisti dall’antico bastione, perché un conto sono i mostri di Huan e un altro è l’arte, tanto per fare qualche nome, di Moore, Paladino, Folon, sposata al fascino della fortezza dedicata a San Giorgio.
Perché quel che Risaliti non comprende – e in questo è in buona compagnia – è che a Firenze l’arte contemporanea ci può anche stare, ma non funziona come in altre città. E come tale non può – e soprattutto non deve – meritarsi tutte queste attenzioni e attrarre quote di risorse altrimenti destinate. Perché non c’era e non c’è nessun giapponese disposto a farsi 15 ore di aereo per venire in riva all’Arno a far l’inchino a qualche opera di artisti contemporanei presente in città. Perché Firenze, nel mondo, è famosa per altri generi artistici, che necessitano di energie d’ogni tipo per essere tutelati, conservati e valorizzati. Sono i numeri a dirlo che magari non esauriscono la lettura del mondo, ma aiutano a capirlo meglio. E siccome l’arte non si mantiene da sola, occorre pensare anche a dei rientri di denaro, utile per la fruizione del patrimonio, senza per altro neanche ipotizzare il suo sfruttamento come si trattasse di giacimenti petroliferi.
È questo che Risaliti evidentemente fa fatica a comprendere e sogna costantemente di organizzare eventi su eventi d’arte contemporanea che distolgono le attenzioni su quella parte di patrimonio che caratterizza Firenze e la sua fama nel mondo. E per piacere non parliamo di primati artistici: sia Hirst (che ha mostrato il suo teschietto sberluscente nella cameretta oscura attigua allo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio), sia Nannucci (il cui “capolavoro”, ovvero la scritta al neon colorato “All art has been contemporary”, fu “appesa” alla facciata sud degli Uffizi) hanno avuto bisogno dell’arte - e dell’architettura - classica per farsi ammirare. Se Risaliti - che per gli incubi tentacolari made in China di Huan ha scelto la fortezza cinquecentesca -, ma anche Bonami e altri fautori del contemporaneo, avessero avuto coraggio, avrebbero preteso di mostrare questa roba in altre sedi più consone, come l’Ex3 di Gavinana. Già, ma là chi le avrebbe viste?
Fin qui Stilicone. Mi sembra doveroso, in quanto "titolare" di Inganni Veraci commentare l'articolo di colui che, come combattente, ha scelto il nome de plume dell'eroe delle Caldine. Senza voler scendere nei particolari non mi trovo d'accordo con una visione così riduttiva del ruolo dell'arte contemporanea a Firenze la cui sicura vocazione a culla di un certo tipo di arte è fuori discussione. A parer mio, e non solo mio perché sennò sarebbe davvero trascurabile, l' anima rinascimentale della nostra città non deve essere una giustificazione per la "ghettizzazione" del contemporaneo. Insomma mi trovo perfettamente d'accordo col concetto espresso da Maurizio Nannucci nell'opera che tanto sdegno ha procurato a Stilicone: "Tutta l'arte è stata contemporanea": purtroppo una frase del genere che con troppa superficialità potrebbe essere letta come un'ovvia banalità trova proprio nell'indisponibilità di molti nostri concittadini la sua motivazione profonda; essere costretti ad affermarlo dà la non bella misura dello stato delle cose.
Gianni Caverni
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