17/11/13

SILVIA LO SAI di Barbara Dardanelli

Era il 1990 , avevo undici anni, quasi dodici per la precisione (a quei tempi ci tenevamo particolarmente, che diventare grandi era un'urgenza costante). Io avevo uno walkman giallo della Sony e dentro spesso ci finiva Luca Carboni. Luca Carboni era quello che cantava "Un fiore in bocca può servire... non ci giurerei, ma dove voli farfallina non vedi che son qui" ma era anche quello
che cantava " Silvia lo sai lo sai che Luca si buca ancora, Silvia chissà chissà se a Luca ci pensi ancora, Silvia lo sai che Luca e' a casa che sta male", oppure le "le fragole buone buone", metafora di una storia di drogati e spacciatori, una roba molto generazionale, che con un quasi dodicenne di buona famiglia che andava a scuola dalle suore, c'entrava molto poco. Insomma nel 1990, anno dei mondiali e delle notti magiche di Nannini-Bennato, uscì anche "Persone Silenziose" di Carboni (in realtà uscì nel 1989, ma vale un po' come la storia degli undici, quasi dodici).
La mia cameretta era invasa dai suoi poster e cartoline, per fortuna dentro Cioé ogni tanto ci finiva anche lui. Non era una faccia "bellina", più che altro aveva quegli occhi scuri tristi e quella voce roca, un po' stonacchiata che mi raccontava della droga, torno a ripetere, niente che avesse a che fare con una quasi dodicenne.
 
Luca Carboni era il lato romantico e poetico di Vasco Rossi, per questo se vuoi, quando cantava certe cose con quella dolcezza ruvida, senza urlare, ma quasi sussurrandotele come in una ninna nanna, colpivano duro ancora di più. Insomma nel 1990 nel mio walkam giallo della Sony suonavano "Le persone silenziose" e mi sognavo di dare un bacio a quel cantante con la barba da fare, i capelli che se ne stavano andando un po' e gli occhi tristi. La cosa più bella fu che nel 1990 Luca Carboni passò anche da Firenze con il suo tour. Io e la mia migliore amica Ilaria, anche lei fan sfegatata di Luca Carboni, iniziammo a implorare i genitori mesi e mesi prima, finché non ci dettero il permesso di andare al box office a fare la coda per comprare i biglietti, a patto che loro ci accompagnassero. Io di quel concerto ricordo tutto. Il cuore che batteva all'impazzata, la fila ai cancelli, lo zainetto di pelle con dentro la bottiglietta d'acqua e le cartoline da farsi autografare, i nostri genitori seduti e noi imploranti a chiedergli di poter andare nel mezzo, finché sfiniti ci dissero di sì. Il palco era messo per la larghezza del palazzetto, non c'era scenografia, se non quella di un pubblico in jeans, dalla
testa ai piedi, come andava di moda allora. Pantaloni jeans, camicia di jeans, giubbotto di jeans. C'erano tutte le sfumature del jeans nel 1990 al concerto di Luca Carboni, al palazzetto dello sport di Firenze (che ora si chiama Mandela Forum). 
E c'erano tanti ragazzi, maschi intendo, e c'erano tanti ragazzi grandi, cioé che a noi sembravano grandi, a quasi dodici anni, un ventenne può sembrarti grandissimo. Certo, perché Carboni cantava quella generazione a quella generazione. Eravamo senza ombra di dubbio fuori luogo, ma sopratutto, nonostante cercassimo di intrufolarci per guadagnare terreno, non arrivavamo mai a un punto dove la faccia di Luca Carboni fosse visibile. Senonché, circa a metà concerto, partì "Silvia lo sai". Davanti a noi c'era un gruppo di ragazzi jeansati grandissimi, con le birre in mano, che non appena partì la canzone, esplosero in un boato. Non capivo se era gioia, commozione o rabbia. Uno di loro per un attimo si voltò e ci vide. Credo che gli facemmo tenerezza, parolottò all'orecchio di un suo amico e poi ci chiese se volevamo salire sulle loro spalle per vedere meglio. Noi logicamente approfittammo e in un nanosecondo, noi quasi dodicenni, che eravamo andate ad ascoltare con il cuore gonfio di emozione il concerto di un cantate che veneravamo senza essere veramente consapevoli dei perché,
ci ritrovammo inconsapevoli dentro ad uno spettacolo ancora più grande. Quei ragazzi che ci tenevano sulle spalle, che ora si abbracciavano dondolandosi alle note di quella canzone, urlavano le parole a squarciagola e credo anche qualcuno piangesse un po'.
 
Che quella non era solo una canzone, per molti era un inno, una storia vissuta in prima persona. Io quella sensazione non me la scorderò mai. A quei tempi non c'erano telefonini o Ipad,  le emozioni le dovevi filmare con gli occhi per fartele rimanere dentro. Era il 1990, avevo undici anni, quasi dodici, era l'8 Aprile, avevo un paio di jeans a vita alta, una maglietta rossa e un giubbotto di jeans, ero sudata marcia all'uscita del Palazzetto dello Sport di Firenze, sudata marcia e cresciuta parecchio in una sola serata, grazie a un concerto, grazie a Luca Carboni, ma sopratutto grazie a quel ragazzo che per quasi mezzo concerto mi tenne sulle sue spalle, a vessillo di due mondi che si univano senza saperlo.

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