03/11/13

QUANTA FRETTA MA DOVE CORRI, DOVE VAI? di Stefano Tanini

Ho iniziato a correre da un anno. E’ venerdì sera, decido che ho abbastanza tempo prima della cena fissata con gli zii di mia moglie. Maglietta bianca di cotone, pantaloncini corti attillati, scarpe da podismo, Garmin al polso e via. Solito percorso: lungo l’Arno fino al Girone e ritorno, 10 km in tutto.
 
Dopo pochi minuti, all’altezza dei campini all’Albereta, un ragazzo mi si para d’avanti facendo segno di fermarmi. Ragazzo, penso, un podista con tempo cronometrato non si ferma tanto facilmente. Lui continua a sbracciarsi, quindi nonostante il Garmin che scandisce i secondi, mi fermo.
“Scusa, siamo solo in nove, giocheresti con noi a calcetto. Dai... abbiamo il campo per un’ora...”
Rimango un pò indeciso. Poi la voglia di rigiocare a calcetto dopo anni ha il sopravvento e dico: “ma si dai, avete trovato il decimo.”
Appoggio il telefono cellulare e le chiavi di casa a terra e mi mescolo ai giocatori, tutti una ventina d’anni più giovani di me. Cinque di loro hanno la maglietta nera, quindi le squadre diventano: magliette nere contro gli altri.  
Dopo pochi minuti è evidente che la squadra nera è più forte. Però poi, noi multicolori scopriamo di avere in squadra il fuoriclasse del mazzo. Un ragazzo che va come una scheggia, ha piedi buoni e la butta dentro con facilità.
Via via metto d’accordo le suole sporgenti delle scarpe da podismo con l’idea di controllare un pallone e riesco a dare un paio di passaggi che il fuoriclasse trasforma in altrettante reti. Insomma, c’è partita.
Poi arriva l’ultimo minuto.
Azione loro sulla destra. Parte un cross alto. Io salto (si fa per dire), e con un colpo di testa all’indietro cerco di allungare la traiettoria della palla e mettere fuori tempo l’avversario. Lui arriva  a grande velocità, salta e incorna verso la rete... ma quando colpisce, la palla non c’è più. L’ho toccata io.
La mia fronte però è ancora lì, dove un attimo prima c’era il pallone.
Una testata terribile: l’arcata sopracciliare destra dell’avversario contro la parte alta della mia fronte.
Cado in avanti e mi ritrovo steso con la faccia a terra. Mi ritiro su. Porto la mano sopra la fronte e sento una voragine.
L’ultima falange dell’indice e del medio entrano completamente nell’anfratto che si è formato sulla mia testa. Apro gli occhi e vedo una pozza di sangue per terra. Mi esce un urlo di disperazione e penso che di lì a poco morirò per fuoriuscita del cervello.
Poi, passati alcuni secondi, si fa strada l’idea che non ho la testa spaccata e che forse sopravviverò.
Dall’altra parte Giacomo, un ragazzo alto sulla venticinquina, è piegato dal dolore e si tiene premuto il sopracciglio con un fascio di carta da rotoli.
 
Qualcuno passa anche a me della carta, poi andiamo in bagno a lavarci le ferite e aspettiamo l’ambulanza.
Finalmente raccolgo il cellulare ancora posato a terra insieme alle chiavi. Mia moglie mi ha cercato più volte. La richiamo: “...ma dove sei?”
“sono all’Albereta”
“dobbiamo andare via un po' prima per la cena: l’appuntamento è alle otto...”.
“no..., per la cena ho dei problemi... vieni qui che ti spiego tutto...”.
Arriva, guarda la ferita, si preoccupa e vuole accompagnarmi in ospedale. La convinco ad andare alla cena e che le darò notizie appena fatta la visita.
Nel frattempo arriva l’ambulanza.
Uno dei soccorritori ha l’aria di essere molto esperto. Ci tranquillizza, stende Giacomo sulla lettiga e fa sistemare me seduto di fianco a lui.
Al pronto soccorso veniamo spinti dentro da protagonisti: Giacomo disteso, io su una sedia a ruote, entrambi con addosso copiose tracce di sangue.
 
C’è un caos da ora di punta. Un’anziana scheletrica con badante cingalese urla che vuole la mamma. Intorno a noi un coacervo di gessi, flebo, tagli e lamenti.
Aspettiamo dignitosi il nostro turno. Poi una giovane dottoressa con maniere sbrigative ma efficaci ci fa domande e compila una scheda.
Giacomo anche ferito è un bel ragazzo, io in quelle condizioni sono piuttosto buffo. Riusciamo a strapparle un sorriso anche in quel clima da prima linea.
Ritorna dopo qualche minuto e inizia con me. Pulisce bene la ferita e comincia a cucire.
Fa male ma non troppo. Alla fine sono cinque punti.
Poi tocca al mio avversario. Sul sopracciglio la cucitura fa più male. Sono cinque punti anche per lui.
Pareggio!
Ci diamo un cinque con sportività. Ora, ben incerottati, aspettiamo ordini dalla dottoressa. Arriva e ci presenta dei moduli da firmare, ce ne consegna una copia e ci saluta: “potete andare. Se però nelle prossime ore avete nausea tornate subito qui.”

 

Ce ne andiamo e attraversiamo la sala d’aspetto dei parenti. Ma cos’ha da guardare questa gente? Poi realizzo che siamo vestiti da calcetto e da podismo e che la mia maglietta bianca sembra un camice da macellai.
Usciamo. Siamo felici, sono passate appena due ore dalla testata e ci sentiamo bene. Non chiamo mia moglie che sarà ancora a cena all’altro capo della città. E’ Giacomo che telefona a sua madre per farci venire a prendere. Ma lei non può prima delle dieci. Allora telefona a suo zio... ma è fuori Firenze. Un po’ si arrabbia, ma tant’è. O aspettiamo le dieci o ci arrangiamo.
Mentre siamo alla fermata dell’autobus propongo di andare a piedi a casa mia, che in quel momento mi sembra vicinissima. Scopriremo solo dopo che sono quasi sei chilometri.
Lui accetta subito (e ti pareva che trovassi uno normale), ci incamminiamo e durante il tragitto cala il buio. Le vie sono semideserte ma i pochi che incrociamo ci guardano strano: forse pensano a una rissa con bastoni e coltelli, chissà.
Dopo più di un’ora arriviamo. Buttiamo i moduli dell’ospedale sul mobiletto d’ingresso e andiamo in bagno per darci una lavata. Lo specchio rimanda facce un po’ affaticate con un vistoso cerotto.
“ti accompagno a casa o ci facciamo una birra?”
“una birra volentieri.”
Apro due lattine di birra e ci sediamo al tavolo di cucina.
“tu che fai?”
“suono l’organo”
“l’organo? Ma lo fai di mestiere?
“si, più o meno..., domenica ho un concerto in Norvegia... ora non so come fare a presentarmi con questo cerotto”
“va bé... dai..., fa figo..., fa un po’ artista dannato in concert.”
“Si, forse si..., però di solito suono nella chiesa di San Miniato a Monte o in concerti un pò eleganti.”
“Senti..., che ne dici di uno spaghettino?”
“Se me lo chiedi..., a quest’ora mi sembra ottima idea”
E lì parto da vero chef. Metto una pentola d’acqua sul fuoco e soffriggo uno scalogno in una grande padella. Prendo due pomodori grossi dalla pianta in giardino, li taglio e li schiaffo in padella. Aggiungo sale e peperoncino quanto basta. Tagliuzzo una mozzarella da 250 e preparo qualche foglia di basilico... nel frattempo l’acqua bolle.
“quanta ne butto?”
“boh..., fai te”
“io ho fame, penso che ce ne vorrà almeno due etti a testa”
“per me va bene.”
“allora facciamo tutto il pacco..., si fa prima.”
Butto mezzo chilo di spaghetti. Poco prima della cottura li salto nella padella per un paio di minuti. Li divido in grandi scodelle e vengono fuori due belle piramidi. Metto sopra una manciata di mozzarella, il basilico e via per la gioia delle nostre forchette. Apriamo un altra birra ciascuno e portiamo a termine il lavoro con passione.
Accompagno Giacomo a casa e al rientro, seduto sul divano, sento tutta la stanchezza del mondo. Poi arriva anche la mia famiglia, racconto tutto, prendo un antidolorifico e andiamo a letto.
Al mattino con la caffettiera sul fuoco mia moglie mi chiede: “cosa sono questi fogli?”
“quali...? ah, sì, me li hanno dati all’ospedale...”
Lei legge ad alta voce:
“Istruzioni per i pazienti che hanno subito un trauma cranico.
Consigli per i prossimi 2/3 giorni:
  • non prendere farmaci per il mal di testa se non prescritti dal medico
  • mangiare cibi leggeri e in ridotta quantità;
  • evitare le bevande alcoliche;
  • evitare sport, esercizi fisici e sforzi di ogni genere.  
Ecco.

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