14/10/13

INSTABILI di Gianni Caverni

L’arte è politica. E’ questo l’assunto che sta alla base, da quando è nata la Fondazione Palazzo Strozzi, di tutta l’attività espositiva del CCC Strozzina fin dall’inizio sotto la direzione di Franziska Nori. Politica nel senso di impegno civile, denuncia, e tutto quello che ha ben poco a che vedere coi partiti ma molto coi modelli di vita e di consumi, con la violenza, lo sfruttamento. Per quanto mi riguarda sono così d’accordo che ogni volta che qui si apre una nuova mostra ho molta curiosità e francamente non sono mai rimasto deluso. Tantomeno questa volta. Il mondo che avevo imparato a conoscere attraverso gli atlanti delle scuole che ho fatto io è cambiato, come è ovvio: “Territori instabili” è il titolo sotto il quale Walter Guadagnini e Franziska Nori hanno raccolto 10, fra artisti singoli e gruppi, che raccontano dei luoghi resi instabili da guerre intestine, da guerre di confine, molto, troppo spesso, da guerre sconosciute, ma anche da differenze sociali enormi, sempre più difficili da nascondere, o comunque da altre forme di instabilità, collettiva e/o individuale.
Non c’è confine senza filo spinato e uno dei 2 video di Sigalit Landau, israeliana, narra di un confine, quello fra gioco e dolore, fra sanità e pazzia, attraverso l’autotortura di un hula hoop di filo spinato.
 

Jo Racltliffe, sudafricana, documenta con fotografie in bianco e nero i segni lasciati da una guerra di confine combattuta da truppe angolane, namibiane, sudafricane e cubane fra la metà degli anni ’60 e la fine degli ’80 in una zona praticamente desertica dell’Angola.
Di Tadashi Kawamata ho già scritto (http://giannicaverni.blogspot.it/2013/10/le-capanne-di-tadashi-kawamata-di.html) in occasione della prima sua installazione sulla facciata di Palazzo Strozzi: due sono le altre, una nel cortile ed una proprio dentro la galleria: quest’ultima ha una grande forza evocatrice essendosi ispirato l’artista alla tragedia dello tsunami.
 

Adam Broomberg, sudafricano, e Oliver Chanarin, del Regno Unito, hanno lavorato sul tema della costruzione reale e simbolica del territorio, dove il falso si confonde col vero: in Mini Israel, il video che riproduce la ricostruzione mobile della vita in Israele nella quale mancano le cose più imbarazzanti come il muro e in cui gli arabi vengono rappresentati solo mentre praticano la pastorizia o pregano.
 

Dell’irlandese Richard Mosse l’installazione video con 6 grandi schermi sui quali passano le riprese realizzate in Congo, con una pellicola ad infrarosso inventata negli anni ‘40 a scopi militari, intorno a una guerra sconosciuta che oppone il governo centrale a una serie di milizie locali.
 

“Loophole for All (Scappatoia per tutti)” è l’installazione di Paolo Cirio che illustra come fanno migliaia di aziende a sfuggire alle leggi fiscali del proprio paese e suggerisce come chiunque possa facilmente godere dell’evasione fiscale frutto della complicità delle isole Cayman e di altri paradisi fiscali attraverso un complesso sistema di passaggi successivi.
 

Kader Attia propone specchi rotti e ricuciti con il fil di ferro, per quanto mi riguarda trovo il suo lavoro il meno interessante di tutta la mostra.
Zanny Begg & Oliver Ressler hanno qui un video/documentario con una serie di interviste sul tema del valore, se ne ha ancora, della parola cittadinanza con l’affermarsi della globalizzazione.
 
The Cool Couple, coppia di artisti italiani (Simone Santilli e Niccolò Benetton), raccontano attraverso fotografie e documenti la particolarissima e sconosciuta storia della Carnia durante la fase finale della Seconda Guerra Mondiale, quando fu invasa e occupata da più di 20.000 cosacchi alleati dei nazisti.
 

Infine è di Paulo Nazareth l’insieme di appunti, fotografie, video, oggetti, volantini, manifesti coi quali testimonia degli interventi performativi fatti durante i suoi lunghi viaggi fatti a piedi, più precisamente del viaggio che dal Brasile lo ha portato(a piedi, insistiamo) a New York.
 
 

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