Prendetemi per pazza, ma se c’è una cosa che
proprio mi piace fare, e in cui, tra l’altro, sono brava come nessun altro al
mondo, è piangere. Leggo una cosa triste e piango, mi rompo un’unghia e piango,
mi sposo e piango, bevo una vodka e piango, sono stanca e piango, litigo e
piango, faccio pace e piango ancora di più. Ma, soprattutto, guardo film e
piango. Piango come una fontana su “Tutto su mia madre” e sull’opera omnia di
Almodóvar, sui cartoni animati come “Dumbo” o “Bambi” e sui classici come
“Colazione da Tiffany” e “Via col vento”, piango su “Shindler’s List”, su “Il
concerto”, su “Neverland” e su “L’ultimo dei mohicani”, ma spesso mi basta
anche una commediola romantica di infima categoria e ok, lo confesso, se sono
in buona piango anche su “Armageddon”.
Ultimamente, la cosa che mi fa piangere di
più, se escludo il mio estratto conto, è “Downton Abbey”. Sì, proprio lui, il
drammone inglese in costume ambientato in quella tenuta da sogno nello
Yorkshire che tutti noi abbiamo sperato fosse solo una ricostruzione e invece
esiste davvero (mannaggiavoi), e in cui il genere umano si divide rigidamente tra
“upstairs” e “downstairs”, tra nobilastri e servitori, tra maggiordomi e
latifondisti, tra principesse e cuoche. Una roba, insomma, che a vederla nel tuo
monolocale soppalcato, anno domini
2013, accanto tuo marito che guarda la partita sul pc, i cinesi che martellano
al piano di sotto, e a farti compagnia una vellutata dell’Esselunga presa in
offerta col 3x2, dovrebbe farti venire voglia di afferrare la prima copia de
“Il capitale” che ti capita sotto mano e spaccare il televisore. E invece, vi
assicuro che i cari lord e lady Grantham e famiglia mi fanno commuovere che
nemmeno un cucciolo di panda zoppo.
Sarà che gli sceneggiatori ci si sono messi proprio
d’impegno. E ci hanno infilato la guerra, la prima, quella delle trincee e
degli assalti alla baionetta, e poi bugie e tradimenti, sogni d’amore
interclassisti, abbozzi di femminismo ante
litteram, nonne un po’ stronze ma meravigliose (e come potrebbe essere
altrimenti, se la nonna in questione è interpretata da una grande Maggie
Smith?), innamorati tenuti separati da circostanze orribili e una pioggia di
lutti da fare invidia a “Er, medici in prima linea”.
La cartina di tornasole,
del resto, è stato il famoso marito – quello che mi ha convinto a guardare gli
zombie, ve lo ricordate? – il quale una volta, tra il primo e il secondo tempo
di Juventus-Cagliari, forse attirato dai miei singhiozzi, si è soffermato con
me sulla scena di una morte particolarmente cruenta (e no, state tranquilli, se
non avete ancora visto la terza stagione non vi svelerò di chi) e, serio come
non mai, ha sentenziato: “Di film di guerra e dell’orrore ne ho visti tanti, ma
questa è la cosa più straziante che mi sia capitata sotto gli occhi”.
Insomma, mettetevela un po’ come vi pare,
politicamente scorretta o no, ma “Downton Abbey” è davvero una serie di quelle
che mi riconciliano col mondo. E, specialmente in questo inizio d’autunno un
po’ piovoso, la consiglio anche a voi. Naturalmente, muniti del dovuto
equipaggiamento. Una copertina, una tazza di tè o, se preferite, un bel
bicchiere di rosso, e una scatola di kleenex. Meglio se di quelli resistenti
però, di marca, doppio velo rinforzato: quando si tratta di lacrime, non c’è
risparmio che tenga.
Ultimamente, la cosa che mi fa piangere di
più, se escludo il mio estratto conto, è “Downton Abbey”. Sì, proprio lui, il
drammone inglese in costume ambientato in quella tenuta da sogno nello
Yorkshire che tutti noi abbiamo sperato fosse solo una ricostruzione e invece
esiste davvero (mannaggiavoi), e in cui il genere umano si divide rigidamente tra
“upstairs” e “downstairs”, tra nobilastri e servitori, tra maggiordomi e
latifondisti, tra principesse e cuoche. Una roba, insomma, che a vederla nel tuo
monolocale soppalcato, anno domini
2013, accanto tuo marito che guarda la partita sul pc, i cinesi che martellano
al piano di sotto, e a farti compagnia una vellutata dell’Esselunga presa in
offerta col 3x2, dovrebbe farti venire voglia di afferrare la prima copia de
“Il capitale” che ti capita sotto mano e spaccare il televisore. E invece, vi
assicuro che i cari lord e lady Grantham e famiglia mi fanno commuovere che
nemmeno un cucciolo di panda zoppo.
Sarà che gli sceneggiatori ci si sono messi proprio
d’impegno. E ci hanno infilato la guerra, la prima, quella delle trincee e
degli assalti alla baionetta, e poi bugie e tradimenti, sogni d’amore
interclassisti, abbozzi di femminismo ante
litteram, nonne un po’ stronze ma meravigliose (e come potrebbe essere
altrimenti, se la nonna in questione è interpretata da una grande Maggie
Smith?), innamorati tenuti separati da circostanze orribili e una pioggia di
lutti da fare invidia a “Er, medici in prima linea”.
La cartina di tornasole,
del resto, è stato il famoso marito – quello che mi ha convinto a guardare gli
zombie, ve lo ricordate? – il quale una volta, tra il primo e il secondo tempo
di Juventus-Cagliari, forse attirato dai miei singhiozzi, si è soffermato con
me sulla scena di una morte particolarmente cruenta (e no, state tranquilli, se
non avete ancora visto la terza stagione non vi svelerò di chi) e, serio come
non mai, ha sentenziato: “Di film di guerra e dell’orrore ne ho visti tanti, ma
questa è la cosa più straziante che mi sia capitata sotto gli occhi”.
Insomma, mettetevela un po’ come vi pare,
politicamente scorretta o no, ma “Downton Abbey” è davvero una serie di quelle
che mi riconciliano col mondo. E, specialmente in questo inizio d’autunno un
po’ piovoso, la consiglio anche a voi. Naturalmente, muniti del dovuto
equipaggiamento. Una copertina, una tazza di tè o, se preferite, un bel
bicchiere di rosso, e una scatola di kleenex. Meglio se di quelli resistenti
però, di marca, doppio velo rinforzato: quando si tratta di lacrime, non c’è
risparmio che tenga.
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