L'altra sera, tornando a casa dopo il cinema e un paio di birre, peraltro assolutamente necessarie per allentare la morsa dell'ansia, ripensavo alla polemica dei politici brianzoli su "Il capitale umano" di Paolo Virzì, e mi veniva da ridere. Tralasciando il fatto che il film è tratto dal romanzo di uno scrittore americano, Stephen Amidon, le cui vicende si svolgono in Connecticut, e dubito che il regista, in cerca in Italia di "un paesaggio gelido, ostile e minaccioso" in cui trasportarle, lo avrebbe trovato nella sua Livorno o magari nella costiera Amalfitana, ma soprattutto, se proprio qualcuno doveva offendersi, sono convinta che quel "qualcuno" avrebbe dovuto coincidere con 61 milioni di italiani, e probabilmente con l'interno genere umano.
Per il suo primo noir, Virzì disegna una serie di ritratti sconfortanti di personaggi meschini e deboli, peraltro interpretati magistralmente, tutti a loro modo colpevoli, per quanto a vari livelli (e guardando il film non sono riuscita a trattenermi dal recitare, dentro di me, il "pensieri, parole, opere e omissioni" di cattolica memoria). Nessuna assoluzione è possibile e forse non è un caso che l'unica vittima, in mezzo a tanti carnefici, faccia solo una brevissima comparsata nei primi minuti del lungometraggio, perché c'è da star certi che come minimo, a scavare un po', almeno uno scheletro sarebbe comparso anche nel suo armadio.
Insomma, ne "Il capitale umano" tutti peccano: i ricchi, forse, un po' di più, ma solo perché hanno maggiori mezzi e possibilità; i poveri, forse, un po' meno, ma sognano di farlo almeno quanto i ricchi. Tutti hanno in comune la disonestà: chi non è disonesto col prossimo, lo è con se stesso, con le proprie aspirazioni lasciate per strada e le proprie verità non cercate. E se l'amore e l'ingenuità possono apparire un'attenuante almeno per certi personaggi, il regista è sempre pronto a ricordare che anche di questo amore, e di questa ingenuità, qualcuno ha fatto le spese, e senza lo sconto.
Avevamo davvero bisogno di sentirci dire quanto facciamo schifo? Chissà. Di sicuro, c'è che a vedere "Il capitale umano" si sta male dall'inizio alla fine, un male che è a tratti disagio, a tratti immedesimazione, a tratti rabbia, ma che è male comunque, e senza cachet per alleviarlo distribuito all'ingresso. C'è anche, però, un piccolo sollievo, la conferma della grandezza di un autore italiano che invece di adagiarsi sugli allori di generi e successi consolidati - successi, tra l'altro, sempre meritatissimi, compreso il penultimo, piccolo, gioiello, "Tutti i santi giorni" - ha deciso di andare oltre, di osare con un grande cast e una grande trama, e soprattutto di lasciare da parte, per una volta, l'onnipresente, italico sorriso amaro, per ricordarci che, ora come ora, da ridere non c'è proprio un bel niente.
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