Ho iniziato a correre da un anno. E’ venerdì sera, decido
che ho abbastanza tempo prima della cena fissata con gli zii di mia moglie.
Maglietta bianca di cotone, pantaloncini corti attillati, scarpe da podismo,
Garmin al polso e via. Solito percorso: lungo l’Arno fino al Girone e ritorno, 10 km in tutto.
Dopo pochi minuti, all’altezza dei campini all’Albereta,
un ragazzo mi si para d’avanti facendo segno di fermarmi. Ragazzo, penso, un
podista con tempo cronometrato non si ferma tanto facilmente. Lui continua a sbracciarsi,
quindi nonostante il Garmin che scandisce i secondi, mi fermo.
“Scusa, siamo solo in nove, giocheresti con noi a
calcetto. Dai... abbiamo il campo per un’ora...”
Rimango un pò indeciso. Poi la voglia di rigiocare a
calcetto dopo anni ha il sopravvento e dico: “ma si dai, avete trovato il
decimo.”
Appoggio il telefono cellulare e le chiavi di casa a
terra e mi mescolo ai giocatori, tutti una ventina d’anni più giovani di me. Cinque
di loro hanno la maglietta nera, quindi le squadre diventano: magliette nere
contro gli altri.
Dopo pochi minuti è evidente che la squadra nera è più
forte. Però poi, noi multicolori scopriamo di avere in squadra il fuoriclasse
del mazzo. Un ragazzo che va come una scheggia, ha piedi buoni e la butta
dentro con facilità.
Via via metto d’accordo le suole sporgenti delle scarpe
da podismo con l’idea di controllare un pallone e riesco a dare un paio di passaggi
che il fuoriclasse trasforma in altrettante reti. Insomma, c’è partita.
Poi arriva l’ultimo minuto.
Azione loro sulla destra. Parte un cross alto. Io salto
(si fa per dire), e con un colpo di testa all’indietro cerco di allungare la
traiettoria della palla e mettere fuori tempo l’avversario. Lui arriva a grande velocità, salta e incorna verso la
rete... ma quando colpisce, la palla non c’è più. L’ho toccata io.
La mia fronte però è ancora lì, dove un attimo prima
c’era il pallone.
Una testata terribile: l’arcata sopracciliare destra dell’avversario
contro la parte alta della mia fronte.
Cado in avanti e mi ritrovo steso con la faccia a terra. Mi
ritiro su. Porto la mano sopra la fronte e sento una voragine.
L’ultima falange
dell’indice e del medio entrano completamente nell’anfratto che si è formato
sulla mia testa. Apro gli occhi e vedo una pozza di sangue per terra. Mi esce
un urlo di disperazione e penso che di lì a poco morirò per fuoriuscita del
cervello.
Poi, passati alcuni secondi, si fa strada l’idea che non
ho la testa spaccata e che forse sopravviverò.
Dall’altra parte Giacomo, un ragazzo alto sulla
venticinquina, è piegato dal dolore e si tiene premuto il sopracciglio con un
fascio di carta da rotoli.
Qualcuno passa anche a me della carta, poi andiamo in
bagno a lavarci le ferite e aspettiamo l’ambulanza.
Finalmente raccolgo il cellulare ancora posato a terra
insieme alle chiavi. Mia moglie mi ha cercato più volte. La richiamo: “...ma
dove sei?”
“sono all’Albereta”
“dobbiamo andare via un po' prima per la cena: l’appuntamento
è alle otto...”.
“no..., per la cena ho dei problemi... vieni qui che ti
spiego tutto...”.
Arriva, guarda la ferita, si preoccupa e vuole accompagnarmi
in ospedale. La convinco ad andare alla cena e che le darò notizie appena fatta
la visita.
Nel frattempo arriva l’ambulanza.
Uno dei soccorritori ha l’aria di essere molto esperto. Ci
tranquillizza, stende Giacomo sulla lettiga e fa sistemare me seduto di fianco
a lui.
Al pronto soccorso veniamo spinti dentro da protagonisti:
Giacomo disteso, io su una sedia a ruote, entrambi con addosso copiose tracce
di sangue.
C’è un caos da ora di punta. Un’anziana scheletrica con
badante cingalese urla che vuole la mamma. Intorno a noi un coacervo di gessi,
flebo, tagli e lamenti.
Aspettiamo dignitosi il nostro turno. Poi una giovane dottoressa
con maniere sbrigative ma efficaci ci fa domande e compila una scheda.
Giacomo anche ferito è un bel ragazzo, io in quelle
condizioni sono piuttosto buffo. Riusciamo a strapparle un sorriso anche in
quel clima da prima linea.
Ritorna dopo qualche minuto e inizia con me. Pulisce bene
la ferita e comincia a cucire.
Fa male ma non troppo. Alla fine sono cinque punti.
Poi tocca al mio avversario. Sul sopracciglio la cucitura
fa più male. Sono cinque punti anche per lui.
Pareggio!
Ci diamo un cinque con sportività. Ora, ben incerottati, aspettiamo
ordini dalla dottoressa. Arriva e ci presenta dei moduli da firmare, ce ne
consegna una copia e ci saluta: “potete andare. Se però nelle prossime ore
avete nausea tornate subito qui.”
Ce ne andiamo e attraversiamo la sala d’aspetto dei
parenti. Ma cos’ha da guardare questa gente? Poi realizzo che siamo vestiti da
calcetto e da podismo e che la mia maglietta bianca sembra un camice da macellai.
Usciamo. Siamo felici, sono passate appena due ore dalla
testata e ci sentiamo bene. Non chiamo mia moglie che sarà ancora a cena
all’altro capo della città. E’ Giacomo che telefona a sua madre per farci
venire a prendere. Ma lei non può prima delle dieci. Allora telefona a suo
zio... ma è fuori Firenze. Un po’ si arrabbia, ma tant’è. O aspettiamo le dieci
o ci arrangiamo.
Mentre siamo alla fermata dell’autobus propongo di andare
a piedi a casa mia, che in quel momento mi sembra vicinissima. Scopriremo solo
dopo che sono quasi sei chilometri.
Lui accetta subito (e ti pareva che trovassi uno normale),
ci incamminiamo e durante il tragitto cala il buio. Le vie sono semideserte ma
i pochi che incrociamo ci guardano strano: forse pensano a una rissa con
bastoni e coltelli, chissà.
Dopo più di un’ora arriviamo. Buttiamo i moduli
dell’ospedale sul mobiletto d’ingresso e andiamo in bagno per darci una lavata.
Lo specchio rimanda facce un po’ affaticate con un vistoso cerotto.
“ti accompagno a casa o ci facciamo una birra?”
“una birra volentieri.”
Apro due lattine di birra e ci sediamo al tavolo di
cucina.
“tu che fai?”
“suono l’organo”
“l’organo? Ma lo fai di mestiere?
“si, più o meno..., domenica ho un concerto in Norvegia...
ora non so come fare a presentarmi con questo cerotto”
“va bé... dai..., fa figo..., fa un po’ artista dannato
in concert.”
“Si, forse si..., però di solito suono nella chiesa di
San Miniato a Monte o in concerti un pò eleganti.”
“Senti..., che ne dici di uno spaghettino?”
“Se me lo chiedi..., a quest’ora mi sembra ottima idea”
E lì parto da vero chef. Metto una pentola d’acqua sul
fuoco e soffriggo uno scalogno in una grande padella. Prendo due pomodori
grossi dalla pianta in giardino, li taglio e li schiaffo in padella. Aggiungo sale
e peperoncino quanto basta. Tagliuzzo una mozzarella da 250 e preparo qualche
foglia di basilico... nel frattempo l’acqua bolle.
“quanta ne butto?”
“boh..., fai te”
“io ho fame, penso che ce ne vorrà almeno due etti a
testa”
“per me va bene.”
“allora facciamo tutto il pacco..., si fa prima.”
Butto mezzo chilo di spaghetti. Poco prima della cottura
li salto nella padella per un paio di minuti. Li divido in grandi scodelle e
vengono fuori due belle piramidi. Metto sopra una manciata di mozzarella, il
basilico e via per la gioia delle nostre forchette. Apriamo un altra birra
ciascuno e portiamo a termine il lavoro con passione.
Accompagno Giacomo a casa e al rientro, seduto sul
divano, sento tutta la stanchezza del mondo. Poi arriva anche la mia famiglia,
racconto tutto, prendo un antidolorifico e andiamo a letto.
Al mattino con la caffettiera sul fuoco mia moglie mi
chiede: “cosa sono questi fogli?”
“quali...? ah, sì, me li hanno dati all’ospedale...”
Lei legge ad alta voce:
“Istruzioni per i pazienti che hanno subito un trauma cranico.
Consigli per i prossimi 2/3 giorni:
- non prendere farmaci per il mal di testa se non prescritti
dal medico
- mangiare cibi leggeri e in ridotta quantità;
- evitare le bevande alcoliche;
- evitare sport, esercizi fisici e sforzi di ogni
genere.
Ecco.
Dopo pochi minuti, all’altezza dei campini all’Albereta,
un ragazzo mi si para d’avanti facendo segno di fermarmi. Ragazzo, penso, un
podista con tempo cronometrato non si ferma tanto facilmente. Lui continua a sbracciarsi,
quindi nonostante il Garmin che scandisce i secondi, mi fermo.
“Scusa, siamo solo in nove, giocheresti con noi a
calcetto. Dai... abbiamo il campo per un’ora...”
Rimango un pò indeciso. Poi la voglia di rigiocare a
calcetto dopo anni ha il sopravvento e dico: “ma si dai, avete trovato il
decimo.”
Appoggio il telefono cellulare e le chiavi di casa a
terra e mi mescolo ai giocatori, tutti una ventina d’anni più giovani di me. Cinque
di loro hanno la maglietta nera, quindi le squadre diventano: magliette nere
contro gli altri.
Dopo pochi minuti è evidente che la squadra nera è più
forte. Però poi, noi multicolori scopriamo di avere in squadra il fuoriclasse
del mazzo. Un ragazzo che va come una scheggia, ha piedi buoni e la butta
dentro con facilità.
Via via metto d’accordo le suole sporgenti delle scarpe
da podismo con l’idea di controllare un pallone e riesco a dare un paio di passaggi
che il fuoriclasse trasforma in altrettante reti. Insomma, c’è partita.
Poi arriva l’ultimo minuto.
Azione loro sulla destra. Parte un cross alto. Io salto
(si fa per dire), e con un colpo di testa all’indietro cerco di allungare la
traiettoria della palla e mettere fuori tempo l’avversario. Lui arriva a grande velocità, salta e incorna verso la
rete... ma quando colpisce, la palla non c’è più. L’ho toccata io.
La mia fronte però è ancora lì, dove un attimo prima
c’era il pallone.
Una testata terribile: l’arcata sopracciliare destra dell’avversario
contro la parte alta della mia fronte.
Cado in avanti e mi ritrovo steso con la faccia a terra. Mi
ritiro su. Porto la mano sopra la fronte e sento una voragine.
L’ultima falange
dell’indice e del medio entrano completamente nell’anfratto che si è formato
sulla mia testa. Apro gli occhi e vedo una pozza di sangue per terra. Mi esce
un urlo di disperazione e penso che di lì a poco morirò per fuoriuscita del
cervello.
Poi, passati alcuni secondi, si fa strada l’idea che non
ho la testa spaccata e che forse sopravviverò.
Dall’altra parte Giacomo, un ragazzo alto sulla
venticinquina, è piegato dal dolore e si tiene premuto il sopracciglio con un
fascio di carta da rotoli.
Qualcuno passa anche a me della carta, poi andiamo in
bagno a lavarci le ferite e aspettiamo l’ambulanza.
Finalmente raccolgo il cellulare ancora posato a terra
insieme alle chiavi. Mia moglie mi ha cercato più volte. La richiamo: “...ma
dove sei?”
“sono all’Albereta”
“dobbiamo andare via un po' prima per la cena: l’appuntamento
è alle otto...”.
“no..., per la cena ho dei problemi... vieni qui che ti
spiego tutto...”.
Arriva, guarda la ferita, si preoccupa e vuole accompagnarmi
in ospedale. La convinco ad andare alla cena e che le darò notizie appena fatta
la visita.
Nel frattempo arriva l’ambulanza.
Uno dei soccorritori ha l’aria di essere molto esperto. Ci
tranquillizza, stende Giacomo sulla lettiga e fa sistemare me seduto di fianco
a lui.
Al pronto soccorso veniamo spinti dentro da protagonisti:
Giacomo disteso, io su una sedia a ruote, entrambi con addosso copiose tracce
di sangue.
C’è un caos da ora di punta. Un’anziana scheletrica con
badante cingalese urla che vuole la mamma. Intorno a noi un coacervo di gessi,
flebo, tagli e lamenti.
Aspettiamo dignitosi il nostro turno. Poi una giovane dottoressa
con maniere sbrigative ma efficaci ci fa domande e compila una scheda.
Giacomo anche ferito è un bel ragazzo, io in quelle
condizioni sono piuttosto buffo. Riusciamo a strapparle un sorriso anche in
quel clima da prima linea.
Ritorna dopo qualche minuto e inizia con me. Pulisce bene
la ferita e comincia a cucire.
Fa male ma non troppo. Alla fine sono cinque punti.
Poi tocca al mio avversario. Sul sopracciglio la cucitura
fa più male. Sono cinque punti anche per lui.
Pareggio!
Ci diamo un cinque con sportività. Ora, ben incerottati, aspettiamo
ordini dalla dottoressa. Arriva e ci presenta dei moduli da firmare, ce ne
consegna una copia e ci saluta: “potete andare. Se però nelle prossime ore
avete nausea tornate subito qui.”
Ce ne andiamo e attraversiamo la sala d’aspetto dei
parenti. Ma cos’ha da guardare questa gente? Poi realizzo che siamo vestiti da
calcetto e da podismo e che la mia maglietta bianca sembra un camice da macellai.
Usciamo. Siamo felici, sono passate appena due ore dalla
testata e ci sentiamo bene. Non chiamo mia moglie che sarà ancora a cena
all’altro capo della città. E’ Giacomo che telefona a sua madre per farci
venire a prendere. Ma lei non può prima delle dieci. Allora telefona a suo
zio... ma è fuori Firenze. Un po’ si arrabbia, ma tant’è. O aspettiamo le dieci
o ci arrangiamo.
Mentre siamo alla fermata dell’autobus propongo di andare
a piedi a casa mia, che in quel momento mi sembra vicinissima. Scopriremo solo
dopo che sono quasi sei chilometri.
Lui accetta subito (e ti pareva che trovassi uno normale),
ci incamminiamo e durante il tragitto cala il buio. Le vie sono semideserte ma
i pochi che incrociamo ci guardano strano: forse pensano a una rissa con
bastoni e coltelli, chissà.
Dopo più di un’ora arriviamo. Buttiamo i moduli
dell’ospedale sul mobiletto d’ingresso e andiamo in bagno per darci una lavata.
Lo specchio rimanda facce un po’ affaticate con un vistoso cerotto.
“ti accompagno a casa o ci facciamo una birra?”
“una birra volentieri.”
Apro due lattine di birra e ci sediamo al tavolo di
cucina.
“tu che fai?”
“suono l’organo”
“l’organo? Ma lo fai di mestiere?
“si, più o meno..., domenica ho un concerto in Norvegia...
ora non so come fare a presentarmi con questo cerotto”
“va bé... dai..., fa figo..., fa un po’ artista dannato
in concert.”
“Si, forse si..., però di solito suono nella chiesa di
San Miniato a Monte o in concerti un pò eleganti.”
“Senti..., che ne dici di uno spaghettino?”
“Se me lo chiedi..., a quest’ora mi sembra ottima idea”
E lì parto da vero chef. Metto una pentola d’acqua sul
fuoco e soffriggo uno scalogno in una grande padella. Prendo due pomodori
grossi dalla pianta in giardino, li taglio e li schiaffo in padella. Aggiungo sale
e peperoncino quanto basta. Tagliuzzo una mozzarella da 250 e preparo qualche
foglia di basilico... nel frattempo l’acqua bolle.
“quanta ne butto?”
“boh..., fai te”
“io ho fame, penso che ce ne vorrà almeno due etti a
testa”
“per me va bene.”
“allora facciamo tutto il pacco..., si fa prima.”
Butto mezzo chilo di spaghetti. Poco prima della cottura
li salto nella padella per un paio di minuti. Li divido in grandi scodelle e
vengono fuori due belle piramidi. Metto sopra una manciata di mozzarella, il
basilico e via per la gioia delle nostre forchette. Apriamo un altra birra
ciascuno e portiamo a termine il lavoro con passione.
Accompagno Giacomo a casa e al rientro, seduto sul
divano, sento tutta la stanchezza del mondo. Poi arriva anche la mia famiglia,
racconto tutto, prendo un antidolorifico e andiamo a letto.
Al mattino con la caffettiera sul fuoco mia moglie mi
chiede: “cosa sono questi fogli?”
“quali...? ah, sì, me li hanno dati all’ospedale...”
Lei legge ad alta voce:
“Istruzioni per i pazienti che hanno subito un trauma cranico.
Consigli per i prossimi 2/3 giorni:
- non prendere farmaci per il mal di testa se non prescritti
dal medico
- mangiare cibi leggeri e in ridotta quantità;
- evitare le bevande alcoliche;
- evitare sport, esercizi fisici e sforzi di ogni genere.
Ecco.
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