14/04/15

IN MORTE DI GALEANO: GARRINCHA, L'ALLEGRIA DEL POPOLO (DA FOGLIO GIALLO)

Garrincha, l'allegria del popolo
“Se era in forma, il campo si trasformava in un circo, la palla diventava un animale obbediente e il gioco un invito alla festa. Garrincha proteggeva il suo cucciolo, la palla, e insieme inventavano trucchi incredibili che mandavano in estasi gli spettatori. Lui la saltava e lei rimbalzava sopra di lui. Poi si nascondeva prima che lui scappasse, per poi ritrovarla che correva già davanti a lui. Nella corsa i suoi inseguitori si scontravano tra di loro nel tentativo di fermarlo”. Questo era Garrincha, almeno secondo Eduardo Galeano, uno dei più celebri scrittori latinoamericani, che ne ha parlato in “Splendori e miserie del gioco del calcio” (1997). Manuel Francisco dos Santos, così si chiamava, è stato uno degli uomini più amati del Brasile, forse il più amato. A renderlo quel mito che oggi rimane, ad oltre vent’anni dalla sua morte, hanno contribuito diversi fattori: primo fra tutti la sua straordinaria abilità di calciatore per la quale viene ricordato come uno dei migliori attaccanti della storia del calcio, un genio del dribbling. Era il 20 gennaio del 1983 quando morì per un edema polmonare: il suo corpo, così particolare, era ormai distrutto dall’alcol. E anche la sua vita era un disastro già da molti anni prima, una vita attraversata da una veloce meteora di successo e di gloria, che finì drammaticamente come era iniziata. Non è un caso se tra i tanti soprannomi fu chiamato anche “l’Angelo dalle ali storte”. Quando nacque, il 28 ottobre del 1933 in un quartiere popolare di Rio de Janeiro, gli fu riscontrata una poliomelite che aveva danneggiato gli arti inferiori. Il padre, una guardia notturna, lo fece operare nella speranza di farlo guarire, ma l’intervento gli lasciò una gamba più corta dell’altra di sei centimetri, e deformata. I medici dissero ai genitori che il loro figlio non sarebbe mai stato in grado di camminare correttamente. E non furono smentiti: lui non camminava… volteggiava, svolazzava. Il soprannome di Garrincha gli fu dato da uno dei suoi dodici fratelli per il fatto che quando lo guardava, “uno storpio dalle gambe storte, tutto pelle e ossa, con la colonna vertebrale storta”, gli ricordava tanto un uccellino che vive nel Mato Grosso, che si chiama appunto così, con la testa grossa, il corpo sbilenco e il canto bellissimo. Ma quello strano uccellino voleva a tutti i costi essere un calciatore, e neanche queste enormi limitazioni fisiche glielo impedirono, anzi, in qualche modo lo agevolarono: quando giocava aveva una “finta” eccezionale, ingannevole grazie alla sua gamba più corta, che lo rendeva tra l’altro anche incredbilmente veloce. L’avversario rimaneva quasi ipnotizzato: non faceva neanche in tempo a rendersi conto di cosa stesse accadendo, che lui era già passato. è ritenuto la più grande ala destra della storia del calcio. Nel 1953, la squadra del Botafogo lo acquistò dal Serrano di Petropolis per la somma di 500 cruzeiros, che rapportata ai giorni nostri equivale a circa 30 euro, e che è forse la cifra più bassa mai pagata in Brasile per un calciatore professionista. Oltre ogni previsione il suo talento si rivelò fin da subito, divenne la stella del Botafogo e, dal 1955, ebbe modo di brillare anche nella nazionale. La mitica squadra del Brasile non perse una partita dal 1958 al 1966: aveva Garrincha e Pelè che giocavano insieme. Proprio nel 1966 Mané, così lo chiamavano gli amici e i compagni di squadra, fece la sua ultima, strepitosa, apparizione sulla scena internazionale ai Mondiali di Inghilterra. Già da qualche anno però la sua vita era in declino: al di fuori del calcio Garrincha non riusciva a condurre una vita normale, era come un bambino e non sapeva gestirsi, anzi era vittima degli stravizi, dell’alcol. Presto si ritrovò solo, abbandonato da tutti, di nuovo povero. Gli sono stati attribuiti quattordici figli, concepiti qua e là. A causa dell’alcol ebbe incidenti anche gravissimi. Più volte tentò di suicidarsi. Non era bastato a renderlo felice neanche un grande amore, quello con la famosissima cantante Elza Soares, che durò vent’anni. Anche lei aveva avuto una vita travagliata, e neanche insieme riuscirono a trovare la serenità. Quando Manuel Francisco dos Santos morì era un disgraziato senzatetto, ma questo non impedì al suo paese di commuoversi per quell’uomo che aveva regalato a tutti tanta gioia. Alegria do povo (l’allegria del popolo) -ancora un altro soprannome- prima di essere sepolto fu esposto nella sua bara allo stadio Maracaná, dove lo salutarono per l’ultima volta migliaia e migliaia di tifosi e di gente che l’aveva amato. Nel memoriale del cimitero in cui è sepolto si legge: “Era un ragazzo dolce, parlava ai passeri”. I fratelli lo chiamavano anche Manuel dos passarinhos (Manuel dei passeri) e a lui piaceva perché sentiva di essere un passero anche lui, e di saper intonare il loro canto. Un episodio della sua vita è emblematico di questa personalità, così innocente e fragile. Il Brasile aveva appena vinto il Mondiale e tutti i giocatori del Brasile furono invitati dal loro presidente ad una trionfale cerimonia in loro onore, allo stadio. La coreografia comprendeva una gabbia con dentro una colomba. Quando il presidente disse ai calciatori che aveva intenzione di donare a ciascuno di loro una villa sulla spiaggia, Garrincha gli si avvicinò e gli disse: “Presidente, a me la villa non interessa, ma avrei un altro desiderio: potrebbe liberare quella colomba?”.

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