Dopo Ai Weiwei Firenze non sarà più la stessa. Me ne sono convinto a vedere le reazioni che l'intervento dell'artista cinese ha provocato e continuerà a provocare fra i miei concittadini. Insomma quei gommoni si sono piantati nella gola dei fiorentini e hanno messo in pericolo la tranquilla respirazione da pennica post prandiale che da tempo immemorabile caratterizza il ritmo di questa città.
La precedente mostra di Palazzo Strozzi, quella sulla collezione di Peggy e Solomon Guggenheim, ha testimoniato come la Firenze del dopoguerra rigettò con sdegno e ribrezzo l'arte moderna proposta alla Strozzina dall'intraprendente ereditieria newyorkese spingendola ad andarsene e a trovare a Venezia quella casa italiana che andava cercando per le sue opere. Piero Bargellini scrisse allora che Peggy "invece di fare incetta di canini di varie razze o d'idoletti cinesi (...) ha messo insieme, con raffinato e perverso gusto, pezzi rari d'artisti cubisti, astrattisti, prunisti, simultaneisti, neoplasticisti, costruttivisti, suprematisti, dadaisti, surrealisti, neoclassicisti, primitivisti, e chi più n'ha, più ne metta".
E ancora: "In questi giorni, attorno a quel palazzo c'è chi urla scandalizzato e c'è chi gongola compiaciuto. Gli scandalizzati danno di provinciali ai gongolanti e i gongolanti danno di provinciali agli scandalizzati": porca miseria, sembra oggi!
Non sarà più la stessa, dicevo. Ma come sarà? La bava alla bocca con la quale hanno in molti gridato allo stupro del Rinascimento non farebbe aspettarsi niente di buono, ma per fortuna in molti hanno invece salutato i gommoni come una liberazione, un tangibile segno di un passaggio finalmente "libero" (come la mostra) verso acque (è proprio il caso di dirlo) più consone alle grandi capitali della cultura.
"Allievo" di Marcel Duchamp, Andy Warhol e Jasper Johns che apprezza e studia dal suo trasferimento negli USA nel 1981, a 24 anni, Ai Weiwei ha appreso da loro il gusto della provocazione che resterà la cifra stilistica e concettuale del suo lavoro.
Ai Qing, il padre, poeta, viene definito nel 1958 "triplo criminale" dal Partito Comunista Cinese e condannato ai lavori forzati. Spedito ai limiti nord-est del Paese a pulire le latrine può fare ritorno a Pechino solo nel 1976. Da lui Weiwei impara la determinazione, la costanza, la coerenza.
Il risultato di questo mix, ovvero l'arte di Ai Weiwei, è perfettamente rappresentata in quella che è la prima grande mostra monografica dell'artista cinese in Italia e che si apre con "Stacked", ossia 950 biciclette argentee montate in modo da formare un muro nel quale si apre un "portale" che fa da accesso al resto della mostra. "Forever" è la marca delle biciclette praticamente le uniche in circolazione durante gli anni della metà del secolo scorso, quelle bici che il piccolo Weiwei non aveva potuto avere. Un muro di argento, ingranaggi, catene e odore di gomma e grasso, un vero "environnement" che mette in gioco tutti i sensi. E un'importante citazione del "Ready made" con la "Ruota di bicicletta" di Douchamp del 1913 il cui altro elemento, il panchetto di legno, è citato poche sale più avanti in "Grapes", il fantastico grappolo che unisce ben 34 sgabelli.
Ai Weiwei è un narratore e come tutti i grandi narratori fa riflettere, sorridere e magari piangere: "Snake Bag" è fatto da 360 zainetti scolastici cuciti a formare un grande serpente che si distende sulla parete, "Rebar and Case" sono la copia in candido marmo dei tondini in ferro rinvenuti contorti nelle macerie nel Sichuan colpito, nel maggio 2008, da un forte terremoto, e le casse a forma di bara che li contengono. I materiali molto scadenti con i quali erano state costruite le scuole causano la morte di migliaia di studenti fra le circa 70.000 vittime del sisma. Ai Weiwei va sul posto e inizia un'inchiesta che rivela le responsabilità del governo cinese che cercherà di insabbiare tutto e cucire la bocca all'artista. Ma Ai Weiwei, si è detto, ha ben imparato la determinazione , la costanza e la coerenza e non si fa intimorire dal potere che prenderà a pretesto una presunta frode fiscale per cacciarlo in galera dove viene abbondantemente picchiato. In una delle pareti della stessa sala scorre un video che documenta la disperazione delle mamme dei bambini estratti morti dalle macerie e gli inutili tentativi di rianimazione, volevo commentare con chi mi stava accompagnando, non mi è stato possibile, la voce mi si è rotta.
"L'arte è politica" afferma Ai e lo dimostra col suo impegno: ogni sua opera trova origine nei soprusi anche personalmente subiti o nelle disperate condizioni degli abitanti della parte più povera e sfruttata del globo. Ed è il tema dei migranti uno degli argomenti sul quale lavora più intensamente negli ultimi anni come bene dimostra "Reframe", l'installazione dei gommoni che incorniciano le finestre del piano nobile del Palazzo. (http://giannicaverni.blogspot.it/2016/08/pesticciare-ai-weiwei-e-farla-franca.html).
E poi "Study of Perspective" ossia le 40 foto del dito medio di Ai sfoderato in un vaffanculo irriverente e senza appello contro i luoghi del potere (Piazza Tien An Men, la Casa Bianca, il palazzo del Parlamento finlandese e tedesco, ecc) ma anche contro simboli della cultura come la Gioconda, la Tour Eiffel e lo stesso Palazzo Strozzi perché non c'è niente di "sacro", che non vada ripensato.
La mostra è allestita in modo da far vedere ed apprezzare l'eleganza degli spazi del primo piano in un bel contrasto intenzionale con la "forzatura" dell'intervento così impattivo sulle due facciate del Palazzo. Nelle intenzioni dell'artista è ben chiaro lo scopo del suo lavoro: ti scandalizzo o comunque catturo con forza la tua attenzione perché ti incuriosisca e magari, anche solo per dare spago alla tua voglia di smascherare il "furbo" che tu credi o almeno sospetti si nasconda dietro la maschera dell'artista, ti viene voglia di approfondire, di andare a vedere. Mi pare che ci riesca in pieno.
La mostra è facile, saranno contenti gli scettici e i sospettosi: le didascalie piuttosto brevi ed agili facilitano la comprensione delle intenzioni dell'artista senza i tanti misteri e le ostilità che spesso caratterizzano l'arte contemporanea. Poi da questo ad amare le opere esposte ce ne corre, ma capire è un passo importante per sentirsi LIBERI.
Sono andato a vedere "Libero" il giorno dopo l'inaugurazione che non è mai il momento adatto per vedere una mostra. Voglio dirvi la cosa che mi ha colpito di più osservando i visitatori: davvero molti di loro erano orientali, insomma forse cinesi, certo orientali. E giovani. Mi sembra un bel segnale.
Una cosa mi ha lasciato perplesso: la visione di "Vases with Auto Paint", ossia gli effetti, va detto bellissimi, dell'immersione di antichissimi vasi neolitici in bidoni di vernice da carrozzeria distruggendone il loro valore artistico e storico intrinseco. Insomma, non so bene che pensare, ma in fondo a che serve una provocazione se non provoca magari perplessità?
Fino al 22 gennaio.
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