Vedo che a dieci anni dalla mia scomparsa il rimpianto è generale. Non ci sono più tanti facili entusiasmi di appassionati di ciclismo dell’ultim’ora: quando vincevo. E le repentine condanne, piene di disprezzo, nel nome del moralismo antidoping: quando perdevo. E neppure l’ematocrito alto, l’insulina presunta, i ritardi stratosferici nelle mie ultime corse. Quegli psicofarmaci che mi avevano imbolsito. Quella cocaina che mi ha ucciso.
Sono morto nel giorno di San Valentino. Nella mia stanza devastata. Una fine da romanzo triste, in una giornata senza amore. Chiuso in un monolocale anonimo di un residence come tanti, affacciato sul mare d’inverno.
Da quel giorno non ho più paura. La vita, la bicicletta e il mondo, visti da quassù, dove gli orizzonti sono infiniti, mi sembrano un attimo. Lo spazio di una pedalata. Il tempo di una volata. Manciate di minuti.
Per quelle sono nato e ho vissuto. Sono morto solo perché da solo ho sempre vinto. Per distacco, sulle salite delle Alpi e dei Pirenei. A volte sotto il sole. Spesso in giorni piovosi, dentro ai banchi di nebbia. Come quella volta in Francia quando Gotti mi vide sparire davanti a lui nella foschia a 42 chilometri dall’arrivo (mi rivide al traguardo quando avevo già vinto).
E di nuovo nel ‘98, il mio grande anno, quando sul Galibier era scesa la gelida pioggia dei quasi tremila metri di quota. Avevo le mani gelate. Ero partito in fuga a 50 chilometri dall’arrivo, staccando tutti. Il mio ds mi allungò una mantellina subito prima della discesa per limitare i danni del freddo. Non riuscivo a infilarla: mi fermai apposta sul ciglio della strada per indossarla. Tanto dietro di me c’era il nulla. Quella volta Ullrich lo lasciai a 9 minuti di distacco.
Potevo farlo perché ero il più forte. Ho sempre cercato il successo. Volevo dimostrare a tutti che non ero un ciclista normale, ma semplicemente il numero uno. C’ero riuscito. Nel ’99 al Giro sulla salita di Oropa mi saltò via la catena. L’ammiraglia dove diavolo era. Mi fermai ancora una volta, come già al Tour. Rimisi a posto la bici come un ragazzino e ripartii. Mancavano solo 8 chilometri al traguardo e il gruppo era laggiù, avanti a me.
Ma c’era da salire. E là dove c’era un colle da scalare c’era il Pirata. Quello con la bandana, che alla mattina delle gare era inavvicinabile. Dal nervoso, dalla tensione, dalla rabbia. Era il segnale: ero in forma e avrei corso bene. Quel nervoso mi assalì di nuovo per quella stramaledetta catena. Rimontai settanta corridori in 8 chilometri e vinsi.
In allenamento il cardiofrequenzimetro lo buttavo, c’avevo l’orecchio ai battiti, io. Mi bastava quello. In corsa, durante la salita, allo scatto, a volte la bandana la buttavo; buttavo anche gli occhiali. E poi mi raccontavano che in quei momenti il telecronista alzava il tono della voce: “Ecco! Pantani…è partito Pantani!”.
Troppo di più non voglio dire. Ci furono i controlli a tappeto, l’ematocrito sopra il limite, il panico nella mia testa. Ho provato rabbia, frustrazione, vergogna. Mi ero riscattato dopo tante cadute. Dopo essermi rotto tibia e perone.
Ma questa volta era tutto diverso. L’80% delle persone aveva messo in discussione tutta la mia carriera, i Tour e i Giri vinti. Avevo paura di aver deluso tutti, dai miei genitori ai tifosi. Di aver barato. E poi le ombre, i sospetti, le maldicenze. Mi fecero terra bruciata nell’ambiente: ero il capro espiatorio ideale del problema doping nel ciclismo. Ma io avevo fatto tutta la gavetta, avevo lottato duramente. Non è un livello un po’ più alto di una sostanza che ti fa diventare un campione.
Mi perseguitavano. Mi volevano fregare. Ma come si fa ad accusarmi di essermi fatto di insulina per poi abbandonare scioccamente la siringa nel cestino dell’hotel, ben visibile, alla vigilia dei controlli? In Appello, infatti, fui assolto.
In bici avevo sempre attaccato. Non avevo mai giocato in difesa. Ma adesso avevo bisogno di farlo, nella mia mente aggredita dalla mia autostima in frantumi. Il patron di Mercatone Uno, Luciano Pezzi, gregario di Coppi e ds di Gimondi, se n’era andato già da anni. Era come aver perso un padre. A un certo punto, allora, lo dissi alla mia manager Manuela Ronchi: “Manu mi hanno fatto assaggiare la cocaina e io ci sono cascato”. Quattro macchine sfasciate in altrettanti incidenti stradali in 18 mesi vi sembran pochi? Ma era l’urlo della solitudine. Uno degli ultimi.
Fra i pochi che mi hanno voluto bene davvero, i miei compagni alla Carrera e alla Mercatone, come Siboni e Conti. Una vita da gregari. Conti al Tour mi tirò per la maglia: “Oh, aspetta ad attaccare che Ullrich ha forato…”. Non me ne ero accorto, attesi che salisse di nuovo in sella e poi scattai. Non sono un Armstrong qualunque, io: l’americano lo battevo. E lui andava a dire che mi aveva fatto vincere.
Da ultimo i miei amici, i miei compagni, mi scrivevano sms, mi ceravano al telefono. Ma io non rispondevo. Avevo staccato il cuore dal cervello. Me ne andai lungo il mare di Rimini e finì com’è finita. Non chiedo niente. Non fate tante cerimonie. Non risarcitemi. Le mie scelte sono state solo mie.
Ricordatemi così: mentre mi alzo sulla sella della mia Bianchi per scattare dalle retrovie, in salita, superando tutti. L’Alpe d’Huez e la Marmolada mi chiamano ancora. La montagna mi porta in Cielo.
Allora che si fa, ricompro la bici? Però in salita io fatico. Chi ce la mette la coca? E poi si va.
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