22/04/14

FIGLIO D'ARTE (PRIMA PARTE) di Nicola Nuti

Che mio padre Mario Nuti fosse un artista, per me era un dato acquisito, come per gli altri ragazzi che avevano il padre impiegato, artigiano o che so io. Consideravo secondario che avesse anche un impiego fisso. Lui, infatti, insegnava in un liceo artistico da quando si era reso conto che dipingere, collaborare a La Nazione come illustratore e fare ceramiche (soprattutto dopo che un cospicuo ordine per l’America era finito sotto il mare con l’Andrea Doria), non era sufficiente a mantenere una famiglia. Era il babbo insegnante, che portava i soldi a casa; ma era il babbo artista che mi riempiva la vita di personaggi strani e interessanti, di imprevisti, di ritardi a cena, assenze ingiustificate, di libri e dipinti ancora fragranti di vernice. Era come se la mia famiglia vivesse in due mondi diversi che si compenetravano e riscattavano l'un l'altro. Cosí la vedevo io.

Da quando ci siamo conosciuti, mio padre ha avuto due studi, sempre nella parte più popolare di Firenze, fatta di stradicciole con l'intonaco sbollato e dilavato, su cui si affacciavano gli antri degli artigiani e dove, per tutto il giorno, si rincorrevano le voci, i richiami, le imprecazioni, le risate di un intero quartiere. Il primo, era uno stanzone che la mia anziana tata gli affittava in casa sua per poche lire, in Borgo Tegolaio; l'altro, era in fondo alla stessa strada, che condivideva con un amico restauratore e pittore. Al babbo non piaceva che lo andassi a trovare allo studio: quello era il suo mondo e quando mi permetteva di entrarci, lo faceva con una sorta di affetto sospettoso verso quel bambino che ero allora, con le sue domande imbarazzanti (“perché dipingi così poco?”, “Perché non fai le figure?”, “Posso dipingere qualcosa anch'io?”) e la sua mania di infilare le mani dappertutto. Mi piaceva lo studio del babbo: ritrovavo cose vecchie, sparite da casa e ricomparse lì. C'era un affollamento di oggetti, odori, immagini, come in un negozio di rigattiere. Sul grande tavolo era appoggiata una spessa tavoletta di compensato con colori freschi secchi, quasi secchi, grumi di cenere di sigaretta, tappi di tubetti e stucco abbandonato. L'odore della sua acqua di colonia si mescolava a quello della trementina, della polvere, dell'olio di lino, dell'orina lasciata a fermentare nella tazza del gabinetto e del fumo della stufa in cui veniva bruciato di tutto. Era comunque un' isola, quella, dove non arrivava la donna delle pulizie né mia madre. Dove non percepivi il fermento, il dibattito culturale e politico che pure animava la città e il paese tutto, in quegli anni di post – boom economico. Là dentro entravano solo amici, collezionisti, e uno o due mercanti. Io mi vendicavo della diffidenza che aveva mio padre nei miei confronti ironizzando sulla pittura, dicendo che quei quadri avrei potuto farli anch'io (quante volte mi è toccato, poi, sentire questa frase da chi si trovava disarmato di fronte alle opere meno convenzionali), visto che in quel periodo mio padre stava approfondendo la tecnica informale. Arrivai persino al punto, una volta, di affacciarmi in salotto, mentre il babbo stava trattando con un collezionista, e, sbirciata la cifra sull'assegno che l'altro stava porgendo, esclamare: “Come, tanti soldi per questo quadretto? Accidenti!”

Per punizione dovetti promettere che avrei aiutato la mamma a preparare il buffet, all'indomani della personale che la galleria Michaud, una delle più importanti della città, avrebbe allestito per mio padre. Ricordo cumuli di olive, di pancarré a quadretti da spalmare con burro e salse multicolore, da riempire con prosciutto o salame; dolcetti da sistemare sui vassoi, sfilze di cetriolini da tagliare per le decorazioni, coppette di caviale appiccicoso da disporre in ciotole più grandi piene di ghiaccio. Quello fu il mio primo contributo all'organizzazione di una mostra. 

Per il mercato dell' arte era un'epoca spensierata: tra gli anni Sessanta e Settanta, tutti compravano di tutto. I galleristi vendevano agli impiegati, ai professionisti, ai bancari, ai neo-milionari, a gente dello spettacolo, e, molto spesso anche agli altri galleristi. I quadri non stavano mai fermi, e neppure i falsari: un semplice appassionato che avesse voluto portarsi a casa un autore affermato, anche vivente, aveva una possibilità su tre di imbattersi in un falso. Fiorivano i premi nazionali, a cui si partecipava solo se si conosceva qualcuno della giuria o se si era presentati da un mercante di potere. Arte e politica andavano a braccetto: mentre Guttuso rappresentava i valori estetici e poetici del realismo, difeso a oltranza dal Pci, Togliatti stigmatizzava l'arte astratta quale pericolosa deviazione borghese, fenomeno elitario da intellettuali, insomma, roba che, secondo la nomenklatura, un operaio non avrebbe potuto capire. Togliatti se l'era presa perfino con Cagli, nonostante che l'artista fosse stato un ex figurativo e che il critico militante Antonello Trombadori avesse profuso un grande impegno per riscattarlo dal suo coinvolgimento nella politica culturale del fascismo prebellico. Su queste basi, era facile che una città come Firenze riscoprisse la propria vocazione oltranzista a schierarsi su fronti opposti, come Guelfi e Ghibellini. Ben lontani dal concepire l'astrattismo come linguaggio espressivo di un mondo fatto di ritmi ed equilibri formali e cromatici, critica e pubblico vedevano nella non - figurazione un vero e proprio attentato alla tradizione, un maldestro e arrogante tentativo di tradurre la realtà in semplici linee e colori, insomma un insulto, uno sputo dritto negli occhi di Michelangelo e Masaccio.

Da qui la frequente domanda: “e questo cosa rappresenterebbe?”, e l'intramontabile: “questo potrei farlo anch'io”, nonché gli strali dei competenti: chi difendeva il realismo sociale, chi il realismo espressionista, chi la propria posizione ideologica, chi era contro e basta. Alle inaugurazioni delle mostre ci si accapigliava, si discuteva: non di rado volavano offese e qualche schiaffo; più d'una volta i quadri vennero sfregiati. L'astrattismo o comunque l'arte informale a Firenze veniva vista come un epifenomeno o se vogliamo una stramberia passeggera. Non importava che fosse difesa da Michelucci o da altri intellettuali e critici e che in Italia si fossero formate altre correnti di arte astratta. Il fiorentino, per definizione, ne sa più di tutti e se l'astrattismo sembrava una cosa assurda, così doveva essere. SI dibatteva alla Casa del popolo, si litigava nelle gallerie, ci si insultava anche sulle pagine dei giornali, si creavano alleanze, faide, si rompevano amicizie, mentre il mercato, quello vero, nel resto d'Italia se ne infischiava e prosperava.

L'economia di Firenze, del resto, era un'economia statica, fatta di artigiani e commercianti, ma soprattutto basata sulle speculazioni immobiliari del dopoguerra: chi aveva fondi e case poteva fare il prezzo che voleva.

5 commenti:

  1. Conoscevo tuo padre.....un grande personaggio.
    Ero suo allievo nel Liceo di Via Cavour, penso sia stata la prima persona anticonformista vera che abbia conosciuto.
    Odiava il Natale, Capodanno, le cerimonie e ..............
    Era un astrattista ma in realtà aveva un segno formidabile e se solo avesse voluto poteva comodamente vivere agiato come paesaggista.
    Quanto fumava!
    Di te ripeteva sempre ironico che l' unica soddisfazione che gli avevi dato era stata 9 mesi prima che nascessi.
    Mitico!
    Lo ricordo con piacere.
    Saluti, Massimo.

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  2. Anch'io l'ho avuto al liceo artistico, rra veramente un gran personaggio. L'anno della maturità, un giorno sostituì il professore di figura (Renzi Crivelli) e al mio cavalletto fece i bellissimo schizzo della modella che conservo gelosamente.

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  3. Anch'io l'ho avuto al liceo artistico, rra veramente un gran personaggio. L'anno della maturità, un giorno sostituì il professore di figura (Renzi Crivelli) e al mio cavalletto fece i bellissimo schizzo della modella che conservo gelosamente.

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  4. bello imbattersi in queste righe, quasi per caso, il sono il figlio di Alvaro Monnini, amico e collega del tuo babbo. Tra le altre cose dipingo (ma la pagnotta la faccio da architetto e da "creativo"), e ho scritto anch'io un pezzo, per la sua antologica del 2013 alla OpenArt di Prato, in cui abbiamo inaugurato l'Archivio Alvaro Monnini. Ma davvero al museo del Novecento di Firenze non ci sono i 5 dell'Astrattismo Classico?

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    1. Ciao, anch'io ho visto per caso questo tuo intervento. Sarebbe interessante restare in contatto. Trovi i miei recapiti su Facebbok. E sì, è vero, mi pare di ricordare che al museo del Novecento ci siano solo Berti e Nativi. Un saluto

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