MAGIC IN THE MOONLIGHT di Omero Sala
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.
Woody Allen è un raffinato paraculo: lo sa (“ogni volta, quando un mio film ha successo, mi chiedo: come ho fatto a fregarli ancora?”) e lo dimostra ancora una volta in questo ultimo film, il 46° della sua carriera, in cui utilizza alla grande i trucchi del mestiere per accontentare le attese dei suoi aficionados.
La prima cosa che colpisce in Magic in the moonlight è l’ambientazione incantata della Costa Azzurra degli anni ’20, (anche se l’incipit si colloca, non certo per caso, nella Berlino di Cabaret, quella greve di colori e trucco che fa presagire gli incubi che sappiamo). Una Costa Azzurra quasi stucchevole, da cartolina, con il corollario di panorami/souvenir, giardini fioriti, atmosfere alla lavanda, costumi raffinati e musiche hot-jazz, macchine scoperte e cieli stellati, personaggi poco ruggenti, giovani dandy vacui e un po’ idioti.
La trama è presto detta.
Stanley Crawford (Colin Firth), un cinico e altezzoso prestigiatore, è invitato a smascherare Sophie Baker (Eileen Atkins), una medium imbrogliona; si convince invece dei suoi poteri di chiaroveggenza, si “converte”, se ne innamora; e quando scopre di essere stato turlupinato, la sua infatuazione gli impedisce di ritrovare il freddo equilibrio della razionalità. Le sconosciute e inspiegabili vibrazioni dell’innamoramento lo deconcentrano sia dalle elucubrazioni della logica, sia dai consolidati pregiudizi della sua proclamata (quasi caricaturale) misoginia.
Il confine fra razionalismo e spiritualismo si rivela un diaframma di carta; altrettanto fragili sono le barriere fra materialismo e misticismo; la strada fra disincanto e incanto è breve; la trasmigrazione dei cuori è meno impossibile di quella degli elefanti.
L’idea pare esile e difficile da rimpolpare dal punto di vista narrativo: il film infatti stenta a decollare e la prima parte è mortalmente lenta e noiosa, al punto che pare spalmata lì solo per caricare strumentalmente l’impennata finale che prende la rincorsa dopo la svolta del magistrale dialogo fra Stanley e la zia, dialogo che però non è altro che un monologo interiore fra lo Stanley freddo che resiste alle lusinghe dell’amore e lo Stanley cotto che attraverso un processo di autoconvincimento prende coscienza della metamorfosi (o della transizione verso nuova vita, solo agevolata dalla sagace zia nel suo maieutico ruolo di ostetrica).
Allen, con la sua fissazione di girare un film ogni anno, non riesce a mantenere il livello di qualità dei suoi capolavori, e sforna un filmetto quasi banale dietro il quale però s’intravvede lo scheletro di un’idea complessa, di una tesi forte.
E comunque riaffiorano qui prepotenti tutte le ossessioni del vecchio regista: quella della scelta, dell’alternativa, del caso; quella del sogno e della magia; quella dei dubbi, delle ambivalenze, delle domande senza risposta; quella del pessimismo cosmico; quella delle paranoie; quella del senso di colpa (con annessi giochetti psicanalitici); quella del valore delle aree intermedie, delle sfumature, delle nebbie; quella del ruolo consolatorio della mistificazione (e dell’amore, e delle illusioni, e delle ideologie, e della religione) e del valore insipido della realtà (e della ragione, e della concretezza, e dell’ateismo); quello della guerra dei sessi e della seduzione come truffa consapevole (sia per il truffatore, che per il truffato); quella del gusto della battuta e della autoironia tagliente e un po’ masochista. Con tutte le ripetitività e i viceversa immaginabili che fanno del nevrotico signor Allan Stewart Königsberg un simpatico gaglioffo inattaccabile.
Nel litigio fra due tipi di chiaroveggenza, quella cialtrona dei “sensitivi” e quella lucida dei razionalisti, Allen pare voler assegnare la vittoria a un "tertium" che è la potenza trascendente dell’amore o la necessità ineliminabile dell’illusione. Ma subito – come si poteva dubitarne? – inverte la rotta, scompagina le carte e riafferma il principio immortale della casualità (dove caso è sinonomo, non solo anagramma, di caos).
La fragilità senile dell’ottantenne regista non riesce a mettere in crisi la sua perfidia esistenziale.
Mentre scorrono i titoli di coda (Windsor bianco su sfondo nero), mi sembra di sentirlo sghignazzare, compiaciuto di averci fregato un’altra volta.
Nessun commento:
Posta un commento