In bici sui
passi
dell’Appennino
si
vedono
le
farfalle
a
bordo
strada.
Di tanti colori, svolazzano intorno
alle
fioriture
con
traiettorie
imprevedibili.
Ogni tanto una
taglia
la
strada
al
lento
procedere
della
ruota
anteriore
e
subito
inverte
il
suo
volo
per
tornare
al
verde
laterale.
Siamo io e
Giulio,
e
ci
piace
la
salita.
Ogni
pedalata
è
una
sofferenza,
ogni
chilometro
una
conquista.
Nulla a che
vedere
con
i
ciclisti
veri,
quelli
che
con
le
bici
da
corsa
vanno
su
come
schegge.
No,
no,
noi
siamo
atleticamente
perfetti
cialtroni.
Giulio ha proposto
il
programma:
quattro
passi
in
tre
giorni.
Io
ho
accettato
con
entusiasmo.
Abbiamo
spolverato
le
ragnatele
dai
parafanghi
e
dal
fanale
delle
nostre
bici
da
strada,
abbiamo
legato
le
borse
laterali
al
portapacchi,
una
gonfiata
alle
gomme
e
siamo
partiti.
Ora, salendo questo
maledetto
passo
di
Croce
ai
Mori,
con
i
muscoli
delle
gambe
che
urlano
il
loro
dolore,
con
le
bici
che
sbandano
dalla
lentezza
del
procedere,
con
un
nuvolo
di
moschine
che
accompagna
le
nostre
teste
sudate,
non
vorremmo
essere
da
nessun’altra
parte
che
qui.
Il panorama della
vallata
segna
la
misura
della
nostra
conquista
e
ci
ripaga
della
fatica.
Lentamente mi stacco
dalla
ruota
di
Giulio,
ma
ho
un
dolore
al
ginocchio
che
mi
tormenta
ad
ogni
colpo
di
pedale...
solite
scuse.
In cima al
passo
facciamo la foto rituale sotto
al
cartello
dell’altitudine.
Poi
grande
godimento
in
discesa,
alberghino
indecente
a
Stia,
aperitivo
al
bar
dove
hanno
girato
“Il Ciclone”,
pizza,
partita
di
coppa
della
Viola
al
bar
centrale
con
gelato
pinguino
tra
il
primo
e
il
secondo
tempo,
e
a
letto
distrutti.
Il secondo giorno
per
ignoti
motivi
si
pedala
meglio.
Il
passo
della
Calla
con
i
suoi
1300
metri
ci
preoccupava
non
poco.
Invece
ci
arriviamo
prima
di
mezzogiorno
e
brindiamo
all’impresa
con
due
generosi
bicchieri
di
bianco
fresco.
La discesa versante
romagnolo
si
arresta
all’agriturismo
“Il Poderone” nel
cuore
della
foresta
di
Campigna.
La
Lorenzina
ci
saluta
cordialmente
mentre
mani
sapienti
lavorano
una
sfoglia
che
rasenta
il
metroquadro:
promette
bene,
molto
bene.
A tavola,
accompagnati
da
un
allegro
Sangiovese,
si
comincia
con
ottimi
ravioli
e
non
riesco
a
dire
no
al
secondo
passaggio
del
vassoio.
Poi
arrivano
la
tagliatelle.
E già alla
prima
forchettata
si
capisce
qual’era
lo
scopo
di
tutto
il
viaggio:
sono semplicemente sublimi. Si
chiude
con
un’insalata
mista.
Evitiamo
la
carne
perché
in
fondo
siamo
atleti...,
e
nel
pomeriggio
dobbiamo
ancora
pedalare.
Prima che l’abbiocco
ci
lasci
stesi
sul
prato
si
riparte.
Dopo
una
discesa troppo breve, si
attacca
il
passo
della
Braccina.
Un
inferno.
E’ una strada
secondaria
con
pendenze
insopportabili. Saliamo praticamente
a
passo
d’uomo.
Non
incontriamo
nessuno,
niente
auto,
niente
camion,
niente
moto,
niente
di
niente.
Siamo
solo
noi
e
la
nostra
impresa
che
vacilla
ad
ogni
tratto
di
strada
dritta
ma
che
inesorabilmente si compie
dietro
ad
ogni
tornante.
Qui le farfalle
a
bordo
strada
sono
moltissime,
o
forse
sono
le
tagliatelle
che
come
un
potente
allucinogeno
ci
hanno
riempito
il
cervello
di
farfalle
colorate.
Dopo aver surriscaldato
i
tasselli
dei
freni
in
discesa,
arriviamo
a
Fiumicello.
Un
bell’albergo
nuovo
e
accogliente,
un
vecchio
mulino
ad
acqua
e
un
allevamento
di
trote.
I telefoni cellulari
qui
sono
inutili.
Erano
anni
che
non
telefonavo
da
un
apparecchio
a
scatti:
“... prema il
tasto
rosso
appena
sente
la
linea.
Ecco,
ok,
ora
può
parlare”.
“... si, ciao,
noi tutto bene, e
voi?...
si,
si,
rientriamo
domani...
baci”.
Incastrati tra le
montagne
la
notte
cala
presto.
Dopo
cena
ci
allontaniamo
dalle
poche
luci
di
fronte
all’albergo
e
sopra
di
noi
appare
un
cielo
con
troppe
stelle.
Ma
dov’erano
tutte
le
altre
notti?
Poi ci accorgiamo
che
fa
un
freddo
quasi
invernale
e
si
scappa
in
camera
dove
in
un
piccolo televisore appeso ad
una
mensola
lassù
in
alto,
si
guarda
(si
fa
per
dire)
la
finale
di
supercoppa
tra
Bayern
e
Chelsea.
Finisce
ai
rigori
e
noi
crolliamo
nel
sonno
con
la
coppa
in
mano
a
Guardiola.
L’ultimo giorno
inizia
con
torta
casaliga
da
inzuppo
e
con
Giulio
che
trova
la
gomma
posteriore
a
terra.
La
mia
pompetta
mignon
vive
il
suo
momento
di
gloria.
La
gomma
resiste,
per
fortuna
il
foro
è
proprio
microscopico.
Nella vallata fa
un
freddo
vero,
poi
inizia
la
salita
verso
l’ultimo
passo,
quello
dei
Tre
Faggi,
e
il
freddo
svanisce
ingoiato
dal
nostro
sudore.
Alcuni
ciclisti
ci
sorpassano
salutando.
Li
lasciamo
andare
senza
scatenare
la
bagarre
perché
noi
andiamo
piano
per
via
delle
borse
pesanti, è
ovvio
no?
Arrivati al passo,
consapevoli
che
l’impresa
è
oramai
compiuta,
ritroviamo
linea
ai
cellulari
e
facciamo
la
telefonata
a
Gianni,
amico
e
organizzatore
abituale
delle
nostre pedalate annuali. Quest’anno
non
è
venuto
per
colpa
di
un
infortunio.
“Ciao
Gianni,
ce
l’abbiamo
fatta.”
Lui
ci
viene
incontro
per
l’ultimo
impegno
della
gita:
un
tenero filetto alla griglia
con
cappella
di
fungo
porcino
alla
trattoria
della
Dory
a
Montebonello.
Ultimi 25 chilometri
di
statale
con
camion
e
auto
in
abbondanza
e
arriviamo
a
casa.
Una
birra
fresca,
un
ultimo
brindisi
e
ci
salutiamo
con
la
sensazione
di
aver
fatto
un
viaggio
in
terre
lontane.
Terre silenziose dove
la
notte
non
si
vedono
luci
se
non
le
stelle.
Terre
di
grandi
foreste
e
animali
selvatici.
Terre
dove
si
accoppiano
le
farfalle.
(PS di Gianni Caverni: o vaglielo a
dire a quelli che voi siete matti, che io morirei, che ci vuole la bici da
corsa, che non mi ci manda la mi’ moglie. E vaglielo a dire anche a quelli che
credono che i supermen siano quelli che si battono in volata per il traguardo
del Mandela Forum!)
Giulio ha proposto
il
programma:
quattro
passi
in
tre
giorni.
Io
ho
accettato
con
entusiasmo.
Abbiamo
spolverato
le
ragnatele
dai
parafanghi
e
dal
fanale
delle
nostre
bici
da
strada,
abbiamo
legato
le
borse
laterali
al
portapacchi,
una
gonfiata
alle
gomme
e
siamo
partiti.
Ora, salendo questo
maledetto
passo
di
Croce
ai
Mori,
con
i
muscoli
delle
gambe
che
urlano
il
loro
dolore,
con
le
bici
che
sbandano
dalla
lentezza
del
procedere,
con
un
nuvolo
di
moschine
che
accompagna
le
nostre
teste
sudate,
non
vorremmo
essere
da
nessun’altra
parte
che
qui.
Il panorama della
vallata
segna
la
misura
della
nostra
conquista
e
ci
ripaga
della
fatica.
Lentamente mi stacco
dalla
ruota
di
Giulio,
ma
ho
un
dolore
al
ginocchio
che
mi
tormenta
ad
ogni
colpo
di
pedale...
solite
scuse.
In cima al
passo
facciamo la foto rituale sotto
al
cartello
dell’altitudine.
Poi
grande
godimento
in
discesa,
alberghino
indecente
a
Stia,
aperitivo
al
bar
dove
hanno
girato
“Il Ciclone”,
pizza,
partita
di
coppa
della
Viola
al
bar
centrale
con
gelato
pinguino
tra
il
primo
e
il
secondo
tempo,
e
a
letto
distrutti.
Il secondo giorno
per
ignoti
motivi
si
pedala
meglio.
Il
passo
della
Calla
con
i
suoi
1300
metri
ci
preoccupava
non
poco.
Invece
ci
arriviamo
prima
di
mezzogiorno
e
brindiamo
all’impresa
con
due
generosi
bicchieri
di
bianco
fresco.
La discesa versante
romagnolo
si
arresta
all’agriturismo
“Il Poderone” nel
cuore
della
foresta
di
Campigna.
La
Lorenzina
ci
saluta
cordialmente
mentre
mani
sapienti
lavorano
una
sfoglia
che
rasenta
il
metroquadro:
promette
bene,
molto
bene.
A tavola,
accompagnati
da
un
allegro
Sangiovese,
si
comincia
con
ottimi
ravioli
e
non
riesco
a
dire
no
al
secondo
passaggio
del
vassoio.
Poi
arrivano
la
tagliatelle.
E già alla
prima
forchettata
si
capisce
qual’era
lo
scopo
di
tutto
il
viaggio:
sono semplicemente sublimi. Si
chiude
con
un’insalata
mista.
Evitiamo
la
carne
perché
in
fondo
siamo
atleti...,
e
nel
pomeriggio
dobbiamo
ancora
pedalare.
Prima che l’abbiocco
ci
lasci
stesi
sul
prato
si
riparte.
Dopo
una
discesa troppo breve, si
attacca
il
passo
della
Braccina.
Un
inferno.
E’ una strada
secondaria
con
pendenze
insopportabili. Saliamo praticamente
a
passo
d’uomo.
Non
incontriamo
nessuno,
niente
auto,
niente
camion,
niente
moto,
niente
di
niente.
Siamo
solo
noi
e
la
nostra
impresa
che
vacilla
ad
ogni
tratto
di
strada
dritta
ma
che
inesorabilmente si compie
dietro
ad
ogni
tornante.
Qui le farfalle
a
bordo
strada
sono
moltissime,
o
forse
sono
le
tagliatelle
che
come
un
potente
allucinogeno
ci
hanno
riempito
il
cervello
di
farfalle
colorate.
Dopo aver surriscaldato
i
tasselli
dei
freni
in
discesa,
arriviamo
a
Fiumicello.
Un
bell’albergo
nuovo
e
accogliente,
un
vecchio
mulino
ad
acqua
e
un
allevamento
di
trote.
I telefoni cellulari
qui
sono
inutili.
Erano
anni
che
non
telefonavo
da
un
apparecchio
a
scatti:
“... prema il
tasto
rosso
appena
sente
la
linea.
Ecco,
ok,
ora
può
parlare”.
“... si, ciao,
noi tutto bene, e
voi?...
si,
si,
rientriamo
domani...
baci”.
Incastrati tra le
montagne
la
notte
cala
presto.
Dopo
cena
ci
allontaniamo
dalle
poche
luci
di
fronte
all’albergo
e
sopra
di
noi
appare
un
cielo
con
troppe
stelle.
Ma
dov’erano
tutte
le
altre
notti?
Poi ci accorgiamo
che
fa
un
freddo
quasi
invernale
e
si
scappa
in
camera
dove
in
un
piccolo televisore appeso ad
una
mensola
lassù
in
alto,
si
guarda
(si
fa
per
dire)
la
finale
di
supercoppa
tra
Bayern
e
Chelsea.
Finisce
ai
rigori
e
noi
crolliamo
nel
sonno
con
la
coppa
in
mano
a
Guardiola.
L’ultimo giorno
inizia
con
torta
casaliga
da
inzuppo
e
con
Giulio
che
trova
la
gomma
posteriore
a
terra.
La
mia
pompetta
mignon
vive
il
suo
momento
di
gloria.
La
gomma
resiste,
per
fortuna
il
foro
è
proprio
microscopico.
Nella vallata fa
un
freddo
vero,
poi
inizia
la
salita
verso
l’ultimo
passo,
quello
dei
Tre
Faggi,
e
il
freddo
svanisce
ingoiato
dal
nostro
sudore.
Alcuni
ciclisti
ci
sorpassano
salutando.
Li
lasciamo
andare
senza
scatenare
la
bagarre
perché
noi
andiamo
piano
per
via
delle
borse
pesanti, è
ovvio
no?
Arrivati al passo,
consapevoli
che
l’impresa
è
oramai
compiuta,
ritroviamo
linea
ai
cellulari
e
facciamo
la
telefonata
a
Gianni,
amico
e
organizzatore
abituale
delle
nostre pedalate annuali. Quest’anno
non
è
venuto
per
colpa
di
un
infortunio.
“Ciao
Gianni,
ce
l’abbiamo
fatta.”
Lui
ci
viene
incontro
per
l’ultimo
impegno
della
gita:
un
tenero filetto alla griglia
con
cappella
di
fungo
porcino
alla
trattoria
della
Dory
a
Montebonello.
Ultimi 25 chilometri
di
statale
con
camion
e
auto
in
abbondanza
e
arriviamo
a
casa.
Una
birra
fresca,
un
ultimo
brindisi
e
ci
salutiamo
con
la
sensazione
di
aver
fatto
un
viaggio
in
terre
lontane.
Terre silenziose dove
la
notte
non
si
vedono
luci
se
non
le
stelle.
Terre
di
grandi
foreste
e
animali
selvatici.
Terre
dove
si
accoppiano
le
farfalle.
(PS di Gianni Caverni: o vaglielo a
dire a quelli che voi siete matti, che io morirei, che ci vuole la bici da
corsa, che non mi ci manda la mi’ moglie. E vaglielo a dire anche a quelli che
credono che i supermen siano quelli che si battono in volata per il traguardo
del Mandela Forum!)
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