Soltanto chi almeno una volta si è sentito
troppo grande o troppo piccolo, troppo alto o troppo basso, troppo magro o
troppo grasso, troppo maschile o troppo femminile può capire davvero. Solo chi,
almeno una volta, si è sentito intrappolato nel corpo sbagliato. Solo chi ha
sognato di farsi crescere un paio di ali e di fuggire via lontano. Quando penso
ad Antony Hegarty l’immagine che mi viene in mente è quella di una farfalla. Una
farfalla che ha lottato più degli altri per emergere dal suo bozzo ingombrante,
ma che alla fine è riuscita a spiccare il volo, ed è andata in alto, sempre più
su, dove nessuno era mai arrivato prima.
No, la mia non sarà una recensione del
concerto di sabato al Mandela Forum: non sono una critica musicale, e dieci
infruttuosi anni di studio del pianoforte non mi mettono al riparo dal senso di
disagio che provo a parlare di ottave, armonie, influenze, tempi, “sì ma” di
rito. Il mio è solo un racconto per immagini, una pagina di bloc notes
scarabocchiata nel buio del palazzetto, un modo per cercare di mettere in
ordine il groviglio di emozioni che da sabato hanno preso possesso del mio
stomaco e non lo lasciano più.
Avevo detto che avrei pianto.
Non l’ho fatto. Non ci sono riuscita. Sono rimasta bloccata, la pelle d’oca fin
dalla prima nota di “Rapture”, la meraviglia nell’ascoltare questo essere
sorprendente affrontare una per una, accompagnato da un’orchestra magistrale,
canzoni che sono come montagne russe, discese ardite e risalite, confessioni di
un’esistenza passata a fare a pugni con generi e definizioni, a cercare un
sentiero diverso per esprimere tutto l’amore che ti porti dentro.
Rispetto a quattro anni fa, a Prato, Antony è
più fiero, più sicuro di sé, più ironico. Parla col pubblico e accenna persino
qualche passo di danza. “Jesus is a girl”, proclama, e chiede a Papa Francesco
di vendere l’oro della Chiesa e usare i soldi per migliorare la condizione
delle donne. La sua voce è prodigiosa, l’hanno paragonata a quella di un
angelo, io preferisco parlare di una dea, la più luminosa e splendente delle
dee, imprigionata per uno scherzo crudele nelle sembianze di un gigante.
E poi arriva lui, Franco
Battiato, il vecchio maestro. Il primo duetto funziona così, la canzone è “You
are my sister”, il terreno è quello di Antony e Battiato non ce la fa, non ci
prova nemmeno, ad andare lassù, fa quasi tenerezza vedere questo signore
elegante che appare improvvisamente minuscolo, soltanto un pazzo potrebbe
affrontare una prova del genere, solo un completo, meraviglioso pazzo.
Ma poi Antony se ne va e Battiato si mette a
sedere, si prende tutta la calma del mondo, parte con le canzoni di “Apriti
sesamo” e l’atmosfera cambia piano piano: la chitarra di Davide Ferrario
provoca l’orchestra e la Toscanini risponde, ed eccoli lì quegli arrangiamenti
che tu a volte te lo dimentichi, di quanto Battiato ha davvero rivoluzionato la
musica italiana, ed eccoli lì, uno per uno, i grandi cavalli di battaglia, “La
canzone dell’amore perduto”, “Prospettiva Nevsky” e ok, pensi, ora che ha fatto
questa posso anche andare a casa.
E invece arriva Alice, questa ragazzina di 59 anni con la voce di una
fata – ma ormai, dopo due ore di concerto, alla meraviglia non dico che ci hai
fatto l’abitudine, ma quasi – e poi di nuovo Antony per due duetti, “As tears
go by” dei Rolling Stones e “Del suo veloce volo”, la canzone che hanno
registrato insieme nel 2008, e sembra quasi una chiacchierata tra amici, la
loro, ora sì che si può volare insieme, in alto, sempre più su.
E di nuovo la palla spetta a Battiato, il
maestro si alza in piedi e riparte da “La Cura”, e tu dici “la canzone d’amore
più bella che sia mai stata scritta” e poi invece parte “E ti vengo a cercare”
e tu rettifichi, e ormai il palazzetto è suo, ormai non c’è più niente da dire
o da pensare o da dimostrare, c’è solo da alzarsi in piedi, correre sotto il
palco, sgolarsi con “Bandiera bianca”, “Up patriots to arms”, urlare e saltare
come pazzi con “Cuccurucucu Paloma” e “Centro di gravità permanente”, e poi salire
sulla bicicletta e andare a letto felici convinti che, un concerto così, chissà
quando lo rivedi.
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