28/05/14

POST SCRIPTUM: BOBBY SANDS "HO APPETITI DI GIUSTIZIA" di Domenico Coviello


Ho sentito che agli inizi di questo mese di maggio Gerry (Adams) ha avuto qualche ritorno di grane a Belfast con la cosiddetta giustizia, per vicende atroci vecchie di oltre 40 anni. Che razza di storie. Nella mia terra non riescono ancora ad avere pace. Né i morti, né i vivi. Io, del resto, la calma apparente l’ho trovata solo andandomene via da questo mondo. E non è bastato, mi pare, perché l’Irlanda del Nord non è riuscita ancora ad affrancarsi dal Regno Unito.

Anche in Cielo però rimango volentieri preda di una sana follia. La stessa che mi convinse, a 18 anni, ad arruolarmi nell’Irish Republican Army. L’ho fatto, lo rifarei. Per Margareth Thatcher eravamo dei criminali terroristi.

Per molta della gente di Belfast, di Derry e delle altre contee eravamo il braccio armato della libertà. Così la pensava Mary, che faceva le pulizie nelle case degli altri e accudiva da sola nove figli, prendendosi schiaffi e sputi dal marito ubriaco purché non prendesse a cinghiate i bambini; così Martin, che a 16 anni portava il salario alla mamma disoccupata, andando a lavare i piatti nel retrobottega delle bettole di Londra; così Bernadette, che si dava via nei vicoli dietro il porto industriale, toccando il crocifisso della catenina dalla paura ogni volta che i poliziotti ghignavano, fissandola con le lingue di fuori; così anche, senza dirlo a voce alta, Roger, un prete smilzo e taciturno, che però quando stavi male, o a scuola ti avevano umiliato, sapeva dirti che chi sempre spera e crede non può mai essere vinto fino in fondo.

Fu quella follia che mi rese felice. Avevo a cuore soltanto la liberazione dagli inglesi e dagli unionisti, e l’indipendenza dell’Irlanda. Non mi sentivo un individuo singolo, e non credevo nell’autorealizzazione di sé, come forse accade più da voi, laggiù in Italia. Ero e sono membro di un popolo, di un’identità collettiva, di una Nazione oppressa. Perciò sono diventato il più famoso degli hunger strikers a Long Kesh, e uno dei detenuti che protestarono denudandosi, e ricoprendo la propria cella di escrementi, per mandare in crisi l’ordine costituito degli oppressori e dei loro secondini psicopatici. Ero e sono un prigioniero politico e non ho avuto paura di lasciarmi morire di fame per vedermi riconosciuta questa posizione politica e affermare la nostra dignità di persone umane.

 

Non ho fame di cibo. Ho appetiti di giustizia. Lasciatemi volare via, libero come le allodole.   

Nessun commento:

Posta un commento