Mi
piaceva essere fotografata in uniforme. A vent’anni ero bella.
Eccome. I miei due bambini mi ricorderanno così.
Mi
dicono kamikaze, perché mi sono fatta saltare in aria con
l’esplosivo per non cadere nelle mani del nemico. Avevo finito le
munizioni ed ero accerchiata: ho portato a termine la mia missione di
comandante il 5 ottobre 2014 a Kobane in Siria. E ho fatto fuori un
bel po’ di banditi tagliagole dello Stato Islamico.
Se
non mi fossi uccisa mi avrebbero catturato, stuprato a turno e poi
decapitato. Ma non ho dato loro questa soddisfazione.
Adesso
so che tutto ciò che ho fatto ha un valore. Anche se è stata una
follia. La follia lucida della guerra.
Ma
noi donne curde che si deve fare? Siamo spose bambine, nei campi
profughi o nelle città assediate. Senza patria. La mia casa è tutto
il mondo, ma ero come un passero senza nido dove posare il capo. Così
sono diventata soldato, come migliaia di altre donne curde. Di tutte
le età. Per noi non c’è scampo: o si combatte o vivere non ha
senso.
Ora
mi dicono eroina del popolo curdo nella storica battaglia di Kobane.
Forse il mio sacrificio non sarà vano: ho saputo che proprio in
questi giorni, a un mese dall’assedio dell’Is i nostri stanno
riconquistando la città, pietra dopo pietra, casa dopo casa. I
comandanti che stanno guidando la riscossa sono un uomo e una donna.
Ne
sono molto orgogliosa. Lo saranno anche i miei figli. Anche loro
combatteranno, vestiti in uniforme, dotati di armi scadenti, con
tutto il mondo contro.
Per
noi non c’è scampo. Siamo costretti a fare gli eroi. E’ il
mestiere peggiore che esista. Però che importanza ha vivere 90 anni
per arraffare tutto il benessere possibile se invece ne hai vissuti
20 dando te stessa per una buona causa?
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