22/10/14
IL PREMIO CIAMPI FA VENT'ANNI
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21/10/14
IL GIOVANE FAVOLOSO di Gianni Caverni
Per
molti, oltre a me, Leopardi è uno dei tanti autori, come Manzoni del
resto, che, nonostante le buone intenzioni, la scuola ha massacrato.
Almeno la scuola dei miei tempi, ma temo anche quella di molti anni
successivi.
Del resto ognuno di noi, forse proprio a causa di questo
massacro, si è fatto poeta "pessimista" intorno dai 14
anni e a ripensarci poi viene sempre in mente Fabrizio De Andrè che
scrisse che
"tutti
gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i
diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un
cretino".
“Il
giovane favoloso”, il bel film di Mario Martone, interpretato da un
gigantesco Elio Germano, rende giustizia al poeta dedicando una sua
metà al periodo giovanile vissuto sotto, più che con, il padre a
Recanati e l'altra metà che racconta della vita a Firenze, dove
incontra Fanny e Antonio Ranieri che marcano la realtà emotiva di
Giacomo.
A Firenze conosce anche la pochezza della società
intellettuale dell'epoca che rifiuta “l'eccessivo pessimismo” del
poeta così in controtendenza con la volontà politica di valorizzare
le sorti magnifiche che il nuovo secolo non può che portare.
Infine
Napoli dove Leopardi muore e dove scrive “La ginestra”,
praticamente il suo testamento poetico e morale, la cui lettura
conclude il film.
Mi
piace riportare anche qui “La ginestra”.
La ginestra
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
19/10/14
REWIND - FENOMENOLOGIA DEL TUBO DI SCAPPAMENTO (2011) di Gianni Caverni
Mi piace ripubblicare alcuni dei pezzi che ho scritto nella mia rubrica settimanale "Sigarette turche" di "STAMP", fra parentesi nel titolo l'anno di pubblicazione; di tempo ne è passato, vogliate scusare se alcuni anacronismi salteranno agli occhi.
Cos’è
un tubo di scappamento? Un apostrofo plumbeo fra un motore e l’aria.
Un niente, l’ultima propaggine di un’automobile, la coda di un
motore a scoppio, l’apparato escrementizio di un veicolo. Eppure
basta osservare con un po’ di attenzione (ok, l’ammettiamo, con
un’attenzione un po’ maniacale) le auto che affogano l’aria
nelle code sulle strade cittadine per accorgersi che la parte più
umile dell’auto sta raccogliendo una crescente attenzione dai Dolce
& Gabbana delle case automobilistiche. Una volta, quando la TV
era in bianco e nero e i ciclisti si dopavano in libertà, i tubi di
scappamento erano “piccoli e neri”. Appena appena più larghi del
dito medio di Bossi uscivano timidi e incerti da sotto la parte
posteriore della carrozzeria: che tenerezza! A dire il vero anche
oggigiorno si vedono circolare auto che hanno mantenuto, almeno in
quell’elemento, la sobrietà e l’understatement di un tempo; ma
sempre più spesso i tubi di scappamento (quelli rotondi, perché ci
sono anche ovali e rettangolari) si avvicinano al diametro di un
pompelmo neozelandese, escono arroganti dal profilo posteriore del
veicolo con malcelato esibizionismo e sono lucidi e abbaglianti, di
una cromatura perfetta. “Me ne frego dell’inquinamento io!
Consumo un sacco di benzina o gasolio perché faccio come mi pare e
vado dove mi pare! E ho un sacco di soldi da spendere!”, sembrano
dire con aria sfrontata. In fondo si tratta dell’eterno conflitto
fra ragione e cuore: mentre gli amministratori delle grandi città
pongono sempre nuovi limiti alle emissioni assassine delle auto nello
stesso momento si producono macchine che offrono dei veri e propri
bocchettoni alle illusioni di onnipotenza degli automobilisti e alla
loro indole competitiva. Insomma l’impressione è che così grandi,
belli e lucidi non servano proprio a niente, sono specchietti per le
allodole: perché a voler approfondire, insomma a guardarli più da
vicino (quindi ancora più maniacalmente) si vede che non si tratta
altro che di capsule cromate applicate alla parte finale del tubo di
scappamento vero il cui diametro è più o meno quello solito. Poteva
presentarsi una Porsche dell’ultima generazione con un paio di
normali tubi posteriori? Certamente no! Ma a ben guardare si vede che
con qualche centimetro di metallo cromato si raddoppiano, per finta
sia chiaro, i canali di emissione e l’aggressività apparente
(fotogallery). D’altronde anche i progettisti di un’auto piccola
eppure così modaiola come la nuova 500, dopo la prima serie diciamo
“normale”, sono corsi ai ripari fornendo all’auto così cara a
Lapo Elkann un bel tubo sovradimensionato e cromato. L’apparenzismo,
il bungabunghismo, il menotassepertuttismo, l’abbronzatissimismo
non faranno parte della stessa famiglia del tubodiscappamentismo? Non
ne siamo sicurissimi ma …
POST SCRIPTUM - ARIN MIRKAN – NEL MIO CIELO NON C’è SPAZIO PER GLI EROI di Domenico Coviello
Mi
piaceva essere fotografata in uniforme. A vent’anni ero bella.
Eccome. I miei due bambini mi ricorderanno così.
Mi
dicono kamikaze, perché mi sono fatta saltare in aria con
l’esplosivo per non cadere nelle mani del nemico. Avevo finito le
munizioni ed ero accerchiata: ho portato a termine la mia missione di
comandante il 5 ottobre 2014 a Kobane in Siria. E ho fatto fuori un
bel po’ di banditi tagliagole dello Stato Islamico.
Se
non mi fossi uccisa mi avrebbero catturato, stuprato a turno e poi
decapitato. Ma non ho dato loro questa soddisfazione.
Adesso
so che tutto ciò che ho fatto ha un valore. Anche se è stata una
follia. La follia lucida della guerra.
Ma
noi donne curde che si deve fare? Siamo spose bambine, nei campi
profughi o nelle città assediate. Senza patria. La mia casa è tutto
il mondo, ma ero come un passero senza nido dove posare il capo. Così
sono diventata soldato, come migliaia di altre donne curde. Di tutte
le età. Per noi non c’è scampo: o si combatte o vivere non ha
senso.
Ora
mi dicono eroina del popolo curdo nella storica battaglia di Kobane.
Forse il mio sacrificio non sarà vano: ho saputo che proprio in
questi giorni, a un mese dall’assedio dell’Is i nostri stanno
riconquistando la città, pietra dopo pietra, casa dopo casa. I
comandanti che stanno guidando la riscossa sono un uomo e una donna.
Ne
sono molto orgogliosa. Lo saranno anche i miei figli. Anche loro
combatteranno, vestiti in uniforme, dotati di armi scadenti, con
tutto il mondo contro.
Per
noi non c’è scampo. Siamo costretti a fare gli eroi. E’ il
mestiere peggiore che esista. Però che importanza ha vivere 90 anni
per arraffare tutto il benessere possibile se invece ne hai vissuti
20 dando te stessa per una buona causa?
17/10/14
12 X 12 GALLERIE IN-CONTEMPORANEA, SABATO 18 OTTOBRE, DA MEZZOGIORNO A MEZZANOTTE.
Dodici
ore dedicate all’arte contemporanea, undici gallerie aperte in
contemporanea, due città coinvolte. 12
x 12 gallerie
in-contemporanea
è la manifestazione che sabato 18 ottobre coinvolgerà, a Firenze
e a Prato, dodici delle gallerie associate ANGAMC, l’Associazione
Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, che per
l’occasione apriranno al pubblico i propri spazi ben oltre il
consueto orario proponendo, da mezzogiorno a mezzanotte, ad
appassionati e collezionisti, le mostre organizzate per l’autunno,
molte delle quali si inaugureranno proprio in questa giornata.
Alla
manifestazione, vero percorso espositivo che sabato unirà il centro
di Firenze a quello di Prato, hanno aderito Alessandro
Bagnai, Frediano Farsetti, Santo Ficara, Frittelli Arte
Contemporanea, Il Ponte, Galleria d'Arte Mentana, Open Art, Poggiali
e Forconi, Eduardo Secci Contemporary, Armanda Gori Casa d'Arte,
Tornabuoni Arte – Contemporary Art.
Alla
Galleria
Alessandro Bagnai (,
nata a Siena alla fine degli anni ’80 e dal 2012 nella sede
fiorentina di Palazzo Ricasoli, avrà luogo l’inaugurazione della
personale di Vittorio
Corsini
con “Reaching the Landscape”, filo conduttore dell’intera
mostra il paesaggio, inteso dall’artista livornese come forma di
conoscenza, come continuità tra mondo e mente.
Da
Frittelli
Arte Contemporanea, inaugurata
nel 2006 con i suoi 2000 mq completamente ristrutturati
dall'architetto Adolfo Natalini,
troviamo
Nanni
Balestrini
con il suo progetto inedito “Fuori tutto” e due nuclei di opere
recenti, “I
maestri del colore”
omaggio-dialogo
con le icone della storia dell'arte riprodotte nella famosa collana
dei Fratelli Fabbri editori, e “Neri”,
una
nuova riflessione sul concetto di ‘distruzione’ in cui macchie
nere invadono lo spazio costruito dalle parole.
Passiamo
poi alle sperimentazioni, alla serialità variata che ricostruiscono
“Germinazione di un’idea 1964-1972” di Rodolfo
Aricò,
ovvero il percorso creativo di oggettivazione della pittura
intrapreso nella seconda metà degli anni Sessanta dal pittore
milanese e in mostra da sabato 18
ottobre
alla Galleria
Il Ponte.
Spazio storico per l’arte contemporanea a Firenze, la Galleria Il
Ponte durante i suoi quasi quarant’anni di attività ha presentato
un ampio ma selezionato nucleo di artisti che abbracciano tutto il XX
secolo
Alla
Galleria
Mentana
apre invece la collettiva Confronto
Astrattismo - Realismo,
un evento che mette in relazione arte figurativa e arte astratta
attraverso le opere di 15 artisti italiani e stranieri: Luca Benini,
Marco Bianchi, Fabio Campari, Valter Candotti, Mirko Colletti, Eleni,
Grazyna Federico, Carolina Ferrara, Arianna Olivieri, Giacinto Ruo,
Paola Salvestrini, Mario Papa, Marco Zampetti, Peter Zelei, Maria
Zimari.
Alla
Galleria
Frediano Farsetti troviamo “Umani non Umani”, la mostra che ricostruisce un
incontro del tutto eccezionale: quello tra il teatro totale di
Carmelo
Bene
e la pittura di Mario
Schifano,
avvenuto sul set di “Umano non Umano”, e qui riproposto
attraverso l’opera di un terzo protagonista, Claudio
Abate,
uno dei maggiori fotografi italiani viventi. 50 fotografie di Claudio
Abate, scattate durante il decennio del suo sodalizio con Carmelo
Bene (1963-1973) sono messe a confronto con un gruppo di opere
importanti dello stesso periodo di Mario Schifano.
Da
Poggiali e Forconi
è previsto un doppio opening: Luigi
Ghirri – L’immagine impossibile,
un’antologica
di
uno dei più importanti maestri della fotografia del XX secolo,
composta da oltre venti fotografie e nel suggestivo spazio della
project room della galleria,
Monochrome,
la
personale
dell’artista
romano Danilo
Bucchi che
espone per la prima volta a Firenze.
Si
tratta invece della prima mostra in Italia per Richard
Dupont
alla Eduardo
Secci Contemporary,
la giovane galleria molto attenta
alle nuove tendenze del contemporaneo. Tendenze che si riflettono
anche nella ricerca all’avanguardia che l’artista newyorkese
Richard Dupont conduce da circa un decennio nel campo delle arti
lavorando a partire dalla tecnica di stampa 3D, e che con “Selfie”
si dispiega nell’intento di rappresentare una possibile evoluzione
culturale che influenza il senso dell’identità e dell’io nella
nostra società.
Al
confronto di tecniche e linguaggi è dedicata “Stilemi moderni”
di Alessandro
Mendini e
Francesco
Caberlon
alla galleria Santo
Ficara. Un
confronto, questo fra Mendini e Caberlon, sviluppato in un territorio
linguistico di confine, dove arte e progetto, pittura e graphic
design si incontrano, tra le grandi colonne e le volte a crociera del
soffitto del pian terreno di Palazzo Borghese, rivelando per un
attimo quell’alfabeto comune a tutte le discipline visive.
Tornabuoni
Arte – Contemporary Art
in via Maggio partecipa all’iniziativa 12
x 12 gallerie
in-contemporanea
con “Espressioni
Contemporanee”,
il
primo ciclo di appuntamenti dedicati a tre personalità del panorama
attuale dell’arte, in mostra opere di Enrico Benetta, Luigi Carboni
e Francesca Pasquali.
Il
viaggio si sposta infine da Firenze a Prato. Armanda
Gori Arte
inaugura Uomini
e cose. Tino Stefanoni - Nando Crippa, sabato
18 ottobre verrà presentato anche il progetto del Catalogo Generale
delle opere di Tino Stefanoni, curato da Valerio Dehò ed Elena
Pontiggia con un saggio di Arturo Schwarz, edizione Umberto Allemandi
& Co.
Sempre
a Prato, la Galleria
Open Art
assieme al Museo di Pittura murale in San Domenico dedicano la
personale “The Spectrum of Light”
all’artista
americano
Paul Jenkins
e alla sua lunga meditazione sulla pittura, che appare come una lunga
storia di colori che si affiancano e si dispongono perfettamente,
come in un unico prisma.
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