Nel 1966 la pittura di mio padre si era già attestata su un robusto informale. Lui fu tacciato di tradimento dagli altri artisti del gruppo di cui aveva fatto parte fin dal '48, che proseguirono sulla strada del rigore geometrico.
Ero ancora convinto che quei quadri avrei potuto farli anch'io, mentre si avvicendavano sempre più spesso i vari mercanti e collezionisti. Il fatto era che il gruppo del babbo, Astrattismo classico, aveva avuto un certo successo, soprattutto fuori Firenze, con alcune mostre a Detroit e a Buenos Aires, così anche se Mario Nuti adesso aveva preso la strada dell'informale, era comunque ritenuto una giovane promessa dell'arte italiana. Poi bisogna considerare che io, essendo asmatico, avevo bisogno di cure costose e di lunghi soggiorni al mare, quindi alcuni dei collezionisti approfittarono dell'urgenza per spuntare prezzi particolarmente bassi. Una volta dovemmo tornare in città, perché i soldi erano finiti: mia madre me lo annunciò sottovoce, sulla spiaggia, in mezzo agli ombrelloni delle agiate famiglie per bene. Allora io mi allontanai, per tornare subito dopo con uno dei miei amici urlando: "Mamma, non mi credono. E' vero che andiamo via perché non abbiamo più soldi?"
da destra Alvaro Monnini, Mario Nuti e Gualtiero Nativi
Per me, d'inverno, a volte si doveva ricorrere alla bombola di ossigeno. Era strano, non andare a scuola e assistere al viavai della mamma che sfaccendava per casa, con l'unica compagnia del blabla della radio in cucina e del fischio del gorgogliatore attaccato alla bombola, quando a fischiare non erano i miei polmoni. Prendevo il cortisone, in commercio da una decina d'anni. Era costoso e, a dosi alte, mi provocava allucinazioni: una volta vidi una fila di topi bianchi che correvano ai piedi del letto. L'umore di mio padre si era raggrumato come la sua pittura: le rare accensioni di rosso, gli sparuti lampeggiamenti di bianco e le apparizioni di azzurro erano sovrastate da una materia cupa, a volte bituminosa. Era quasi un presagio di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. La mattina del quattro novembre 1966 mi svegliai in un'atmosfera strana. C'era un silenzio irreale oltre il regolare scroscio della pioggia che ci accompagnava già da una quindicina di giorni. Il babbo era uscito all'alba ed era tornato con la faccia preoccupata; la mamma, alle otto era già andata a fare una spesa d'emergenza. Rientrò con un'espressione stravolta, mormorando: “Il finimondo!”
Mi affacciai alla finestra per scoprire che il giardino del fioraio, di sotto, era invaso da un flusso crescente di acqua limacciosa, solcata da striature nere, che poi seppi essere di nafta. Erano i colori che fino a quel giorno avevo visto nei quadri di casa. Qualche anno dopo, ripensandoci, realizzai che forse quella pittura non avrei proprio saputo farla anch'io. Intanto, nei giorni che seguirono, fu come stare in una nave alla deriva: non si poteva uscire e nessuno aveva i mezzi per venire da noi. Infine l'acqua si ritirò e si cominciò a spalare il fango, a contare i danni. L'inondazione aveva sventrato negozi, distrutto i laboratori artigiani, sconvolto le strade. Si parlava di chiese, affreschi, biblioteche rovinate per sempre. Tutte le cose, i vestiti della gente, i muri, portavano quei segni di fango e nafta come se, magicamente, il babbo avesse trasformato l'intera città in un suo quadro. Anche la galleria Michaud, che si trovava in una piazzetta a declivio proprio davanti al Ponte Vecchio, ebbe gli sporti divelti e le sale invase dall'acqua fangosa. Mio padre, prima ancora che il liquame marrone e nero fosse defluito del tutto, aveva portato in salvo diversi dipinti. Così la camera dei miei, la più grande della casa, con due finestre, divenne una sorta di ricovero per i quadri feriti dall'intemperanza del fiume. I dipinti vennero adagiati sul pavimento, e sotto il velo di melma rappresa, si poteva intuire, qua e là, una natura morta di De Pisis, una composizione futurista di Soffici, un Concertino di Rosai, un paesaggio di Carrà e perfino un disegno di Picasso, miracolosamente intatto, chiuso tra il vetro e il pesante pannello posteriore della cornice. Io vedevo solo dei quadri fangosi, ma il fatto che il babbo stesse pulendo quelle tele con una cura particolare, pur non essendo uscite dal suo studio, mi fece capire che dovevano essere molto importanti.
Mario Nuti, Alberto Michaud e Piero Bargellini
Nessun commento:
Posta un commento