04/06/14

FIGLIO D'ARTE (SECONDA PARTE) di Nicola Nuti

Nel 1966 la pittura di mio padre si era già attestata su un robusto informale. Lui fu tacciato di tradimento dagli altri artisti del gruppo di cui aveva fatto parte fin dal '48, che proseguirono sulla strada del rigore geometrico.

Ero ancora convinto che quei quadri avrei potuto farli anch'io, mentre si avvicendavano sempre più spesso i vari mercanti e collezionisti. Il fatto era che il gruppo del babbo, Astrattismo classico, aveva avuto un certo successo, soprattutto fuori Firenze,  con alcune mostre a Detroit e a Buenos Aires, così anche se Mario Nuti adesso aveva preso la strada dell'informale, era comunque ritenuto una giovane promessa dell'arte italiana. Poi bisogna considerare che io,  essendo   asmatico, avevo bisogno di cure costose e di lunghi soggiorni al mare, quindi alcuni dei collezionisti approfittarono dell'urgenza per spuntare prezzi particolarmente bassi. Una volta dovemmo tornare in città, perché i soldi erano finiti: mia madre me lo annunciò sottovoce, sulla spiaggia, in mezzo agli ombrelloni delle agiate famiglie per bene. Allora io mi allontanai, per tornare subito dopo con uno dei miei amici urlando: "Mamma, non mi credono. E' vero che andiamo via perché non abbiamo più soldi?"

da destra Alvaro Monnini, Mario Nuti e Gualtiero Nativi


Per me, d'inverno, a volte si doveva ricorrere alla bombola di ossigeno. Era strano, non andare a scuola e assistere al viavai della mamma che sfaccendava per casa, con l'unica compagnia del blabla della radio in cucina e del fischio del gorgogliatore attaccato alla bombola, quando a fischiare non erano i miei polmoni. Prendevo il cortisone, in commercio da una decina d'anni. Era costoso e, a dosi alte, mi provocava allucinazioni: una volta vidi una fila di topi bianchi che correvano ai piedi del letto. L'umore di mio padre si era  raggrumato come la sua pittura: le rare accensioni di rosso, gli sparuti lampeggiamenti di bianco e le apparizioni di azzurro erano sovrastate da una materia cupa, a volte bituminosa. Era quasi un presagio di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. La mattina del quattro novembre  1966 mi svegliai in un'atmosfera strana. C'era un silenzio irreale oltre il regolare scroscio della pioggia che ci accompagnava già da una quindicina di giorni. Il babbo era uscito all'alba ed era tornato con la faccia preoccupata; la mamma, alle otto era già andata a fare una spesa d'emergenza. Rientrò con un'espressione stravolta, mormorando: “Il finimondo!”

Mi affacciai alla finestra per scoprire che il giardino del fioraio, di sotto, era invaso da un flusso crescente di acqua limacciosa, solcata da striature nere, che poi seppi essere di nafta. Erano i colori che fino a quel giorno avevo visto nei quadri di casa. Qualche anno dopo, ripensandoci, realizzai che forse quella pittura non avrei proprio saputo farla anch'io.  Intanto, nei giorni che seguirono, fu come stare in una nave alla deriva: non si poteva uscire e nessuno aveva i mezzi per  venire da noi. Infine l'acqua si ritirò e si cominciò a spalare il fango, a contare i danni. L'inondazione aveva sventrato negozi, distrutto i laboratori artigiani, sconvolto le strade. Si parlava di chiese, affreschi, biblioteche rovinate per sempre. Tutte le cose, i vestiti della gente, i muri, portavano quei segni di fango e nafta come se, magicamente, il babbo avesse trasformato l'intera città in un suo quadro. Anche la galleria Michaud, che si trovava in una piazzetta a declivio proprio davanti al Ponte Vecchio, ebbe gli sporti divelti e le sale invase dall'acqua fangosa. Mio padre, prima ancora che il liquame marrone e nero fosse defluito del tutto, aveva portato in salvo diversi dipinti. Così la camera dei miei, la più grande della casa, con due finestre, divenne una sorta di ricovero per i quadri feriti dall'intemperanza del fiume. I dipinti vennero  adagiati sul pavimento, e sotto il velo di melma rappresa, si poteva intuire, qua e là, una natura morta di De Pisis, una composizione futurista di Soffici, un Concertino di Rosai, un paesaggio di Carrà e perfino un disegno di Picasso, miracolosamente intatto, chiuso tra il vetro e il pesante pannello posteriore della cornice. Io vedevo solo dei quadri fangosi, ma il fatto che il babbo stesse pulendo quelle tele  con una cura particolare, pur non essendo uscite dal suo studio, mi fece capire che dovevano essere molto importanti.

Mario Nuti, Alberto Michaud e Piero Bargellini


Dopo l'alluvione, gli anni Settanta irruppero nella città, quasi senza aspettare che fossero finiti i Sessanta. Prima ancora che fossero cancellate le tracce di nafta dai muri, si rinnovarono le insegne e gli arredi dei negozi. Mentre Umberto Baldini, allora direttore del Gabinetto di restauro, sperimentava nuove tecniche per salvare le opere d'arte danneggiate, a Firenze nascevano i vari night club.

L'alluvione, che aveva trasformato la città in un quadro di mio padre, aveva lasciato ghigni oleosi dappertutto e stravolto la geografia culturale dei quartieri: gli artigiani si spostarono, gli appartamenti vennero svenduti e molti si spostarono in periferia. Da quel Pak di detriti emerse una Firenze più anonima, come dall'informale di mio padre cominciarono a colare via i grumi di colore per lasciare il posto a figure attonite e straniate.

Quell'estate fu un mercante milanese del babbo, Tamar Del Fante, che fece prolungare in montagna le mie vacanze. Del Fante era un uomo che non badava a spese: pagò tutto. Quando veniva a Firenze, alloggiava al Savoy con la sua   bella moglie ben più giovane di lui e i due figli. Si muoveva con eleganza e gentilezza,  ma aveva l'aspetto di un rapace, con un'accentuata calvizie, il naso aquilino e gli occhi piccoli e scuri, vivacissimi. A me, però, ricordava il mio anziano canarino e lo trattavo con confidenza. Pur essendo ricco, non esibiva alcunché. Come se in qualche modo, per lui, avere e condividere il meglio di tutto fosse naturale. Essere ricco e mercante nell'Italia degli ultimi anni Sessanta, voleva dire accumulare soldi e rischiare quasi niente. Un giorno chiamò mio padre al Forte dei Marmi per discutere con un ricco collezionista. Andammo anche io e la mamma. Ci ritrovammo in un bar all'aperto. La mamma era bellissima, con un vestito azzurro che le lasciava scoperte le spalle e su cui si proiettavano le chiazze di luce che passavano tra i rami degli alberi, come in un dipinto impressionista, e  ricordo che, mentre il cameriere stava servendo le bibite, il collezionista passò un assegno a Del Fante: "Ecco, questi, intanto, sono i dieci milioni per il De Chirico, poi tratteremo il resto". Dieci milioni, all'epoca, era davvero una bella cifra. Tamar incassò quasi indifferente, mentre il cameriere trasalì facendo cadere un bicchiere. Io risi, allora rise anche Del Fante. Tutti ridevano, e alla fine mi allungò cinquemila lire "per il biliardino" disse lui. Era all'incirca il 1969 e io ero un bambino con in mano quelli che oggi sarebbero all'incirca ottanta Euro .

 

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