18/12/16

LA MIA ALLUVIONE di Nicola Nuti

Io ero pronto, avevo gli stivali di gomma e la mia cerata gialla, mentre il cappello impermeabile, sempre giallo, lo avevo dato al mio coniglio di pezza. Tutti e due aspettavamo vicino alla porta che qualcuno desse l’ordine di partire, quasi fossimo dei paracadutisti.
Tutto era cominciato la mattina: da fuori non venivano i soliti rumori della strada e in casa avvertivo una certa agitazione. Il babbo era uscito presto. Al suo ritorno, dalla mia stanza lo sentii parlottare con la mamma, poi uscirono insieme di nuovo. Quello strano silenzio era diventato un rumore sordo, continuo e strisciante che attraversava le pareti.
Prima tornò mio padre, con l’aria cupa, e accese subito la radio; dopo poco la mamma fece una delle sue entrate teatrali: “la fine del mondo!” e, scuotendo l’ombrello nell’acquaio (non fosse mai che cadessero delle gocce sul pavimento appena lucidato), rovesciò sul tavolo alcuni pacchetti. Aveva comprato, non so come, visto che era un giorno di festa, un gran pezzo di pane, della frutta e un tocco sanguinolento di carne che mise subito a cuocere.
“Il finimondo, vi dico. L’Arno è al pari delle spallette! E il Ponte Vecchio sta per crollare! Bambini – i bambini eravamo io e il babbo - qui succede qualcosa di grosso. Riempiamo la vasca da bagno nel caso chiudessero l’acqua e facciamo questo roastbeef,  magari una polenta, che è roba che si può mangiare anche in un secondo momento”. Non so perché nei momenti concitati e quando c’era qualche incombenza, mia madre parlava sempre al plurale, quasi che tutta la famiglia, ovvero io, lei e mio padre, dovesse agire come un sol uomo.
Al di là dei toni melodrammatici, la mamma ci aveva visto giusto. Dopo poche ore non avevamo più gas né luce, né acqua. Per fortuna avevamo un caminetto.
La mia casa di via Guicciardini era una specie di ponte verso un altro mondo: entravo da una strada congestionata di macchine e poi mi affacciavo sul Corridoio Vasariano; da lì una serie di tetti si tuffava tra gli alberi e le coste erbose di Boboli, mentre su tutto vegliava il Forte Belvedere. Sembrava una realtà galleggiante, che non poteva essere contaminata dalla fisiologia del quotidiano. Dalle finestre potevo vedere anche l’ampio giardino del fioraio, affollato di piante in vaso; e proprio là cominciai a scorgere una lingua di acqua marroncina variegata di nafta che avanzava sul vialetto di ghiaia. Un gatto, inseguito dal  liquame, si arrampicò su una pietra non molto alta. “Salta! Salta!”, gli gridavamo, come se potesse capire. E il gatto lo fece; saltò incredibilmente sulla sella di una Lambretta distante non meno di un metro,  parcheggiata su uno stretto marciapiede. Era salvo.
Impaurito, incuriosito ed eccitato, a quel punto volevo vedere di più e mi feci portare dai vicini, da dove si poteva vedere la strada e da dove mio padre filmò i pochi secondi che gli permise la bobina di pellicola ormai alla fine. I cartelli stradali dondolavano furiosamente, come scossi da una mano enorme: la piena del fiume, scavalcate le spallette, correva pigra, ma possente, per le strade che conoscevo, dentro i negozi dove andavo con la mamma a fare la spesa, strappava la serranda del tabaccaio dove venivo spedito a comprare le fatidiche “dieci nazionali”, svuotava il banco della fornaia che mi regalava sempre un grissino o due; imbrattava i tessuti della camiceria sotto casa. Pensai al mio mondo stravolto e sentii che sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile, dal momento che tutti i miei punti di riferimento venivano spazzati via: certamente l’acqua sarebbe salita ancora,  senza scampo, meglio uscire, guadare la strada come i cowboy facevano col Rio Bravo, tutti stretti per mano e in fila indiana e raggiungere il mondo delle mie fantasie a Boboli. Per questo calcai il cappello della mia cerata gialla sulle orecchie di Trudy e mi preparai all’avventura. Ma poi guardai giù nella tromba delle scale: il liquame nerastro si era precipitato nel vano delle cantine e, dopo averle riempite, stava tornando su ribollendo. Il tanfo era insopportabile. Non saremmo riusciti ad andarcene, certamente non da là.
Dopo aver progettato un paracadute fatto di ombrelli, una specie di teleferica dalle nostre finestre alle mura del Belvedere e una barca di cartone, mi rassegnai mangiando roastbeef freddo e fette di polenta arrostite, oppure spalmate di miele, per alcuni giorni, mentre la gente si chiamava dalle finestre e qualcuno, dal campanile della chiesa, faceva segnali luminosi incomprensibili verso di noi. L’atmosfera era sospesa, il tempo rallentato, come alla vigilia di qualcosa. I rumori che venivano dalla strada non si srotolavano più a scandire i momenti della giornata, ma si propagavano isolati, quasi fossero un’eco. Era come stare in un’epifania misteriosa.
E venne il momento di uscire: il fiume era tornato nel suo letto, lasciando dietro di sé, come una gigantesca lumaca, una scia di fango untuoso. Tutto era infangato, i nostri vestiti, i muri, le cose che compravamo. A casa nostra il fango entrò insieme ai quadri che il babbo aveva aiutato a recuperare in una galleria in Piazza del Pesce, dall’altra parte del Ponte Vecchio: Rosai, Soffici, Picasso, ci fecero compagnia per qualche tempo, mentre le tele venivano pulite prima che la sporcizia si seccasse sulle superfici dipinte.
Poi la notizia di una possibile epidemia dovuta agli animali morti nel piccolo zoo delle Cascine e nelle stalle del vicino ippodromo, spinsero i miei a farmi cambiare aria e mi portarono da dei parenti a Pistoia. Era strano, credevo che l’Alluvione fosse un fatto universale e invece adesso vedevo strade pulite, case senza la riga di nafta sulla facciata, negozi in ordine. E pensare che avevo portato con me il camion dei pompieri, quello con le ruote grandi, nel caso avessi trovato la mota pure lì.
Restai una manciata di giorni, ma a me parve almeno un mese. La scuola era un ricordo lontano e anche Firenze per me era all’altro capo del mondo.

Quando tornai la città portava i segni di quello che era successo e le strade trasudavano ancora melma (avrebbero continuato a farlo ancora per diversi mesi), ma ci si stava avviando alla normalità. Non potevo sapere dei morti, dei libri danneggiati o perduti alla Nazionale, né del Cimabue o delle altre opere rovinate: a casa il mio coniglio mi aspettava felice di non avere più la cerata gialla sulle orecchie e poi…. Tra poco sarebbe stato Natale.

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