Io ero pronto, avevo gli stivali di gomma e la mia cerata
gialla, mentre il cappello impermeabile, sempre giallo, lo avevo dato al mio
coniglio di pezza. Tutti e due aspettavamo vicino alla porta che qualcuno desse
l’ordine di partire, quasi fossimo dei paracadutisti.
Tutto era cominciato la mattina: da fuori non venivano i
soliti rumori della strada e in casa avvertivo una certa agitazione. Il babbo
era uscito presto. Al suo ritorno, dalla mia stanza lo sentii parlottare con la
mamma, poi uscirono insieme di nuovo. Quello strano silenzio era diventato un
rumore sordo, continuo e strisciante che attraversava le pareti.
Prima tornò mio padre, con l’aria cupa, e accese subito la
radio; dopo poco la mamma fece una delle sue entrate teatrali: “la fine del
mondo!” e, scuotendo l’ombrello nell’acquaio (non fosse mai che cadessero delle
gocce sul pavimento appena lucidato), rovesciò sul tavolo alcuni pacchetti.
Aveva comprato, non so come, visto che era un giorno di festa, un gran pezzo di
pane, della frutta e un tocco sanguinolento di carne che mise subito a cuocere.
“Il finimondo, vi dico. L’Arno è al pari delle spallette! E
il Ponte Vecchio sta per crollare! Bambini – i bambini eravamo io e il babbo -
qui succede qualcosa di grosso. Riempiamo la vasca da bagno nel caso
chiudessero l’acqua e facciamo questo roastbeef, magari una polenta, che è roba che si può
mangiare anche in un secondo momento”. Non so perché nei momenti concitati e
quando c’era qualche incombenza, mia madre parlava sempre al plurale, quasi che
tutta la famiglia, ovvero io, lei e mio padre, dovesse agire come un sol uomo.
Al di là dei toni melodrammatici, la mamma ci aveva visto
giusto. Dopo poche ore non avevamo più gas né luce, né acqua. Per fortuna
avevamo un caminetto.
La mia casa di via Guicciardini era una specie di ponte verso
un altro mondo: entravo da una strada congestionata di macchine e poi mi
affacciavo sul Corridoio Vasariano; da lì una serie di tetti si tuffava tra gli
alberi e le coste erbose di Boboli, mentre su tutto vegliava il Forte Belvedere.
Sembrava una realtà galleggiante, che non poteva essere contaminata dalla
fisiologia del quotidiano. Dalle finestre potevo vedere anche l’ampio giardino
del fioraio, affollato di piante in vaso; e proprio là cominciai a scorgere una
lingua di acqua marroncina variegata di nafta che avanzava sul vialetto di
ghiaia. Un gatto, inseguito dal liquame,
si arrampicò su una pietra non molto alta. “Salta! Salta!”, gli gridavamo, come
se potesse capire. E il gatto lo fece; saltò incredibilmente sulla sella di una
Lambretta distante non meno di un metro, parcheggiata su uno stretto marciapiede. Era
salvo.
Impaurito, incuriosito ed eccitato, a quel punto volevo
vedere di più e mi feci portare dai vicini, da dove si poteva vedere la strada
e da dove mio padre filmò i pochi secondi che gli permise la bobina di
pellicola ormai alla fine. I cartelli stradali dondolavano furiosamente, come
scossi da una mano enorme: la piena del fiume, scavalcate le spallette, correva
pigra, ma possente, per le strade che conoscevo, dentro i negozi dove andavo
con la mamma a fare la spesa, strappava la serranda del tabaccaio dove venivo
spedito a comprare le fatidiche “dieci nazionali”, svuotava il banco della
fornaia che mi regalava sempre un grissino o due; imbrattava i tessuti della
camiceria sotto casa. Pensai al mio mondo stravolto e sentii che sarebbe
accaduto qualcosa di irreparabile, dal momento che tutti i miei punti di
riferimento venivano spazzati via: certamente l’acqua sarebbe salita
ancora, senza scampo, meglio uscire,
guadare la strada come i cowboy facevano col Rio Bravo, tutti stretti per mano
e in fila indiana e raggiungere il mondo delle mie fantasie a Boboli. Per
questo calcai il cappello della mia cerata gialla sulle orecchie di Trudy e mi
preparai all’avventura. Ma poi guardai giù nella tromba delle scale: il
liquame nerastro si era precipitato nel vano delle cantine e, dopo averle
riempite, stava tornando su ribollendo. Il tanfo era insopportabile. Non
saremmo riusciti ad andarcene, certamente non da là.
Dopo aver progettato un paracadute fatto di ombrelli, una
specie di teleferica dalle nostre finestre alle mura del Belvedere e una barca
di cartone, mi rassegnai mangiando roastbeef freddo e fette di polenta
arrostite, oppure spalmate di miele, per alcuni giorni, mentre la gente si
chiamava dalle finestre e qualcuno, dal campanile della chiesa, faceva segnali
luminosi incomprensibili verso di noi. L’atmosfera era sospesa, il tempo
rallentato, come alla vigilia di qualcosa. I rumori che venivano dalla strada
non si srotolavano più a scandire i momenti della giornata, ma si propagavano
isolati, quasi fossero un’eco. Era come stare in un’epifania misteriosa.
E venne il momento di uscire: il fiume era tornato nel suo
letto, lasciando dietro di sé, come una gigantesca lumaca, una scia di fango
untuoso. Tutto era infangato, i nostri vestiti, i muri, le cose che compravamo.
A casa nostra il fango entrò insieme ai quadri che il babbo aveva aiutato a
recuperare in una galleria in Piazza del Pesce, dall’altra parte del Ponte
Vecchio: Rosai, Soffici, Picasso, ci fecero compagnia per qualche tempo, mentre
le tele venivano pulite prima che la sporcizia si seccasse sulle superfici
dipinte.
Poi la notizia di una possibile epidemia dovuta agli animali
morti nel piccolo zoo delle Cascine e nelle stalle del vicino ippodromo,
spinsero i miei a farmi cambiare aria e mi portarono da dei parenti a Pistoia.
Era strano, credevo che l’Alluvione fosse un fatto universale e invece adesso
vedevo strade pulite, case senza la riga di nafta sulla facciata, negozi in
ordine. E pensare che avevo portato con me il camion dei pompieri, quello con
le ruote grandi, nel caso avessi trovato la mota pure lì.
Restai una manciata di giorni, ma a me parve almeno un mese.
La scuola era un ricordo lontano e anche Firenze per me era all’altro capo del
mondo.
Quando tornai la città portava i segni di quello che era
successo e le strade trasudavano ancora melma (avrebbero continuato a farlo
ancora per diversi mesi), ma ci si stava avviando alla normalità. Non potevo
sapere dei morti, dei libri danneggiati o perduti alla Nazionale, né del
Cimabue o delle altre opere rovinate: a casa il mio coniglio mi aspettava
felice di non avere più la cerata gialla sulle orecchie e poi…. Tra poco
sarebbe stato Natale.
Che bel racconto!!! Bravo.
RispondiEliminaGrazie!
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